Con la sentenza n. 31192 dello scorso 9 novembre, la III sezione penale della Corte di Cassazione, ha confermato la misura cautelare dell'obbligo giornaliero di presentazione alla polizia giudiziaria disposta a carico di un uomo accusato di pornografia minorile per aver istigato una minorenne a inviargli degli auto-scatti erotici ritraenti le proprie parti intime.
Si è difatti precisato che "il delitto di pornografia minorile punisce anche colui che, pur non realizzando materialmente la produzione di materiale pedopornografico, abbia istigato o indotto il minore a farlo, facendo sorgere in questi il relativo proposito, prima assente, ovvero rafforzando l'intenzione già esistente, ma non ancora consolidata: tali condotte, infatti, costituiscono una forma di manifestazione dell'utilizzazione del minore, che implica una strumentalizzazione del minore stesso, sebbene l'azione sia posta in essere solo da quest'ultimo".
Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un uomo, accusato di pornografia minorile perché in un contesto di conversazioni digitali di tipo sessuale, aveva istigato una minore di anni 14 – tramite l'inoltro di una serie di messaggi dal contenuto inequivocabile – a inviargli degli auto-scatti erotici ritraenti le proprie parti intime.
Nel corso delle indagini era emerso che le pressioni dell'uomo erano ripetute e continuavano senza sosta, con condotte sistematiche e per nulla occasionali: l'uomo, infatti, era incapace di controllarsi e mettere in atto iniziative volte a governare la rilevata deviazione sessuale.
In virtù di tanto, il Tribunale di Bologna, adito ai sensi dell'art. 310 c.p. dal P.M. del medesimo tribunale, con ordinanza applicava all'uomo la misura cautelare dell'obbligo giornaliero di presentazione alla polizia giudiziaria.
Ricorrendo in Cassazione, la difesa dell'indagato chiedeva l'annullamento dell'ordinanza impugnata, denunciando vizio ex art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p.: eccepiva, infatti, come fossero prive di rilevanza penale le condotte di chi riceva auto-scatti erotici della presunta vittima in un contesto di conversazioni digitali di tipo sessuale.
A tal fine evidenziava come, in un simile caso, fosse del tutto assente una posizione di abuso dell'agente rispetto alla ritenuta vittima, stante l'esistenza piuttosto di una relazione paritaria tra i soggetti coinvolti: l'autoscatto, infatti, generalmente sarebbe espressione di libera autodeterminazione, così da escludere rapporti di strumentalizzazione e degrado della personalità del minore.
La Cassazione non condivide le difese mosse dal ricorrente.
Gli Ermellini evidenziano che, ai sensi dell'articolo 600-ter, comma primo, n. 1 c.p. il delitto di pornografia minorile punisce anche colui che, pur non realizzando materialmente la produzione di materiale pedopornografico, abbia istigato o indotto il minore a farlo, facendo sorgere in questi il relativo proposito, prima assente, ovvero rafforzando l'intenzione già esistente, ma non ancora consolidata: tali condotte, infatti, costituiscono una forma di manifestazione dell'utilizzazione del minore, che implica una strumentalizzazione del minore stesso, sebbene l'azione sia posta in essere solo da quest'ultimo.
Con specifico riferimento al caso di specie, il tribunale ha fatto corretta applicazione del principio sopra enunciato, in quanto ha proceduto all'accertamento dell'influenza causale dell'istigazione operata dall'indagato, mettendo in evidenza – secondo un giudizio di fatto immune da vizi e quindi incensurabile in sede di legittimità – la stretta correlazione tra gli autoscatti, l'invio dal materiale da parte della minorenne e i messaggi inoltrati dall'uomo.
La sentenza impugnata ha quindi evidenziato come questi messaggi, dall'inequivocabile contenuto, erano diretti proprio ad istigare la ragazza a fare autoscatti erotici e ad inoltrarli, così operando una forma di strumentalizzazione e utilizzo della minore e confutando la tesi, del tutto unilaterale quanto assertiva, della spontaneità delle condotte della medesima.
In conclusione, la Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.