Lo ha statuito la Suprema Corte di Cassazione con Sentenza n. 6697 del 2016 con la quale è stato precisato che una volta terminata la fruizione del periodo di comporto (malattia), periodo in relazione al quale vige il divieto assoluto di licenziamento da parte del datore di lavoro, se il lavoratore non rientra a lavoro senza fornire tempestivamente giustificazioni, il datore di lavoro può legittimamente intimare il licenziamento al dipendente "negligente".
Sebbene, inoltre, il lavoratore, trascorso il periodo suddetto, potrebbe decidere di mettersi in aspettativa, come stabilito dai CCNL di riferimento, non potrebbe prescindersi dalla valutazione del modus operandi.
La vicenda, che aveva preso le mosse dal giusto licenziamento irrogato ad una lavoratrice, che terminato il periodo di comporto non era rientrata a lavoro, limitandosi a presentare domanda di aspettativa, ha portato i Giudici a ritenere legittimo tale licenziamento, contrariamente a quanto stabilito dai giudici di prime cure e dai giudici di appello.
Infatti, hanno precisato i Giudici di piazza Cavour, in casi come quello in esame non si applica un principio di immediatezza nel recesso, ma i termini vanno valutati in maniera "ampia".
I Supremi Giudici hanno ritenuto in buona sostanza che nel caso de quo non fosse ravvisabile, in capo al datore di lavoro, alcuna tacita rinuncia al recesso, considerato che il recesso aveva avuto luogo, comunque, dopo alcuni giorni dalla comunicazione alla lavoratrice che il periodo di comporto era concluso e che la stessa non era rientrata a lavoro.
Sebbene, inoltre, il lavoratore, trascorso il periodo suddetto, potrebbe decidere di mettersi in aspettativa, come stabilito dai CCNL di riferimento, non potrebbe prescindersi dalla valutazione del modus operandi.
La vicenda, che aveva preso le mosse dal giusto licenziamento irrogato ad una lavoratrice, che terminato il periodo di comporto non era rientrata a lavoro, limitandosi a presentare domanda di aspettativa, ha portato i Giudici a ritenere legittimo tale licenziamento, contrariamente a quanto stabilito dai giudici di prime cure e dai giudici di appello.
Infatti, hanno precisato i Giudici di piazza Cavour, in casi come quello in esame non si applica un principio di immediatezza nel recesso, ma i termini vanno valutati in maniera "ampia".
I Supremi Giudici hanno ritenuto in buona sostanza che nel caso de quo non fosse ravvisabile, in capo al datore di lavoro, alcuna tacita rinuncia al recesso, considerato che il recesso aveva avuto luogo, comunque, dopo alcuni giorni dalla comunicazione alla lavoratrice che il periodo di comporto era concluso e che la stessa non era rientrata a lavoro.