Con l'ordinanza n. 37762 dello scorso 1 dicembre in materia di compensi legali, la VI sezione civile della Corte di Cassazione ha rimarcato le oggettive diversità per determinare i compensi dovuti ad un legale a seconda che assuma il ruolo di legale interno di una pubblica amministrazione o di libero professionista scelto dall'esterno.
Si è difatti specificato che "sussiste un'oggettiva diversità tra il regime dei legali interni, inseriti nell'organizzazione amministrativa con vincolo di dipendenza e assoggettati ai regolamenti dell'ente di appartenenza, alla contrattazione collettiva e alla disciplina del rapporto di servizio – che ne stabiliscono i rispettivi diritti ed obblighi, anche quanto ai limiti massimi erogabili a titolo di compenso – e quella dei liberi professionisti destinatari di incarichi professionali, che restano regolati dal contratto di mandato anche per gli aspetti di carattere economico".
Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dalla domanda presentata da un legale, volta ad ottenere il compenso – pari ad euro 61.005,38 – per il patrocinio svolto in favore della Provincia di Forlì-Cesena in talune controversie civili.
L'avvocato deduceva che l'ente pubblico, in occasione della sua cessazione dal servizio presso la stessa provincia, ove era stato dirigente del settore Avvocatura interna, gli aveva conferito l'incarico - come professionista esterno - per le cause di cui si era già occupato quando ancora era alle dipendenze dell'amministrazione; tuttavia, espletato il mandato, le richieste di pagamento delle parcelle professionali non avevano sortito alcun effetto.
Costituendosi in giudizio, la Provincia sosteneva che i compensi dovevano essere calcolati in base ai minimi di tariffa, occorrendo evitare disparità di trattamento e garantire l'osservanza di una prassi interna, da reputarsi vera e propria fonte normativa.
Il Tribunale liquidava l'importo di Euro 61.005,35, oltre accessori, regolando le spese processuali.
L'ente pubblico proponeva, quindi, ricorso in Cassazione eccependo l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per aver il tribunale negato valenza normativa alla prassi interna di riconoscere i minimi di tariffa anche ai professionisti esterni.
Inoltre, il Tribunale non aveva considerato che l'avvocato si era già occupato delle cause allorquando era legale interno dell'ente e che non vi era stata alcuna soluzione di continuità tra l'attività svolta prima e dopo la sua cessazione dal servizio, come risultava provato dal fatto che il difensore aveva continuato ad usufruire dei mezzi e dei locali dell'amministrazione, non disponeva di un proprio studio ed aveva svolto l'attività senza chiedere alcun rimborso spese.
La Cassazione non condivide le doglianze sollevate.
La Corte ricorda che sussiste un'oggettiva diversità tra il regime dei legali interni, inseriti nell'organizzazione amministrativa con vincolo di dipendenza e assoggettati ai regolamenti dell'ente di appartenenza, alla contrattazione collettiva e alla disciplina del rapporto di servizio – che ne stabiliscono i rispettivi diritti ed obblighi, anche quanto ai limiti massimi erogabili a titolo di compenso – e quella dei liberi professionisti destinatari di incarichi professionali, che restano regolati dal contratto di mandato anche per gli aspetti di carattere economico.
Con specifico riferimento al caso di specie, la Corte evidenzia come la Provincia non avesse fornito alcuna prova circa l'esistenza di una prassi dell'ente volta a parificare il trattamento economico dei professionisti interni e dei legali esterni. Sul punto, l'ordinanza impugnata aveva specificamente considerato la possibilità di estendere all'originario attore il trattamento economico riservato ai legali interni, osservando però che vi era un'oggettiva diversità di adempimenti e remunerazione rispetto ai difensori/liberi professionisti; si è anche correttamente osservato come la circostanza che il resistente si fosse già occupato del medesimo contenzioso quale dipendente della Provincia o che si fosse avvalso dei mezzi e dei locali dell'amministrazione non poteva condurre all'automatica applicazione dei minimi tabellari, potendo al più incidere sulla sola quantificazione dell'importo finale secondo i valori tariffari.
In conclusione, la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso.