Di Rosalia Ruggieri su Lunedì, 27 Agosto 2018
Categoria: Giurisprudenza Cassazione Penale

Opposizione agli incontri tra padre e figlio, SC: “La madre commette reato e va condannata”

 Con la pronuncia n. 38608 dello scorso 14 agosto, la VI sezione penale della Corte di Cassazione ha precisato che il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice "si concretizza in qualunque comportamento, anche omissivo, da cui derivi la frustrazione delle legittime pretese altrui", così confermando la condanna per il reato di cui all'art. 388, comma 2, c.p. inflitta ad una madre che aveva ripetutamente tenuto un atteggiamento oppositivo sugli incontri tra padre e figlio, eludendo quanto stabilito dal giudice civile nel provvedimento che fissava l'esercizio del diritto di visita dell'ex coniuge.

Sul merito della questione si era pronunciato, inizialmente, il Tribunale di Cosenza che aveva condannato la donna alla pena di Euro 450,00 di multa per il reato di cui all'art. 388, comma 2, c.p., poiché dalle dichiarazioni rese dall'ex marito, dal fratello di questi e delle relazioni redatte dagli assistenti sociali era stata pienamente comprovata la persistente elusione, da parte dell'imputata, del provvedimento con il quale il giudice civile aveva regolato i diritti di visita e di incontro tra il padre ed il figlio minore, affidato alla madre.

La Corte di Appello di Catanzaro confermava la decisione del Tribunale, sicché la donna proponeva ricorso per Cassazione lamentando – oltre che difetti di procedibilità dell'azione penale per vizi legati alla proposizione della querela ed, in particolare, alla mancata identificazione del soggetto querelante – che l'impugnata sentenza non avesse adeguatamente motivato sul giudizio di colpevolezza.

 In particolare, la madre rilevava come il giudice penale avesse fondato la propria decisione esclusivamente sulle dichiarazioni rese dalla parte civile e dal fratello, smentite dai testi a discarico, senza vagliare l'attendibilità di tali dichiarazioni, vieppiù perché provenienti da un soggetto – il padre del bambino – che negli anni aveva mostrato un comportamento immaturo, sfociato in una condanna per calunnia e per il reato di maltrattamenti in famiglia.

La Cassazione non condivide le tesi difensive dell'imputata, ritenendole agganciate a motivi generici e manifestamente infondati.

In via preliminare, la Corte respinge la doglianza sul difetto di procedibilità dell'azione penale ribadendo come la mancata identificazione del soggetto che presenta la querela non determina l'invalidità dell'atto allorché – come nel caso di specie, ove mai nessuna contestazione è stata avanzata – ne risulti accertata la sicura provenienza (cfr. Sezioni Unite, sent. n. 26268/2013).

In relazione al merito del ricorso, la Corte evidenzia come i giudici di merito abbiano correttamente vagliato la condotta dell'imputata sia sulla base delle dichiarazioni rese dalla parte offesa che sulla scorta delle relazioni delle assistenti sociali.

In relazione alle dichiarazioni rese dalla persona offesa, costituita parte civile, gli Ermellini ricordano che, verificata la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità intrinseca del suo racconto, le stesse dichiarazioni possono – da sole e senza la necessità di riscontri estrinseci – essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato.

Nel caso sottoposto al vaglio dei Supremi Giudici, è emerso come la Corte di appello ha compiuto un'attenta disamina delle dichiarazioni rese dalla parte civile, costretta ad agire in giudizio, in sede civile, per chiedere il rispetto delle proprie prerogative genitoriali.

 L'accertamento dei togati di merito, tuttavia, è andato ben oltre, in quanto sono state attentamente vagliate anche le dichiarazioni – non sospettabili di genuinità e attendibilità – degli assistenti sociali.

Gli stessi hanno riferito che la donna era ripetutamente e ingiustificatamente assente agli incontri fissati presso i servizi sociali e, quando si presentava, era autrice di altri comportamenti, tra i quali quello di interrompere arbitrariamente i momenti di relazione tra il padre e il figlio e di voler necessariamente presenziare agli incontri nei quali non era prevista la sua figura.

Sulla portata di tali dichiarazioni la ricorrente non ha espresso alcuna specifica censura, nonostante le stesse siano state poste a fondamento della decisione impugnata.

Pertanto, la Cassazione evidenzia come l'emerso comportamento della donna – secondo pacifica giurisprudenza – è sussumibile nella condotta elusiva, di cui all'art. 388 c.p.: il reato, infatti, si concretizza in qualunque comportamento, anche omissivo, da cui derivi la frustrazione delle legittime pretese altrui.

Nel caso di specie, la condotta è stata aggravata sia dall'evidente finalità ostruzionistica che dalla reiterazione e protrazione nel tempo delle oppositive condotte tenute dall'imputata, anche rispetto alle indicazioni rivenienti dai mediatori preposti ad assicurare il diritto di incontro del genitore con il figlio minore.

In conclusione la Cassazione – rilevato come legittimamente si fosse accertata la condotta incriminata – dichiara inammissibile il ricorso della donna, confermando così il capo di imputazione ascrittole e condannandola al pagamento delle spese processuali, anche in favore della parte civile, e al versamento della somma pari ad euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende in ragione della ravvisabilità di colpa nella proposizione dell'impugnazione.

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