Di Rosalia Ruggieri su Mercoledì, 16 Gennaio 2019
Categoria: Famiglia e Conflitti

Omesso mantenimento, SC: “Nessun reato se la figlia maggiorenne può lavorare”

Con la recente sentenza n. 1342 dello scorso 11 gennaio, la VI sezione penale della Corte di Cassazione ha assolto con formula piena un uomo che per tre mesi non aveva versato l'assegno di mantenimento alla figlia maggiorenne, sul presupposto che non ha rilevanza penale la mancata corresponsione dell'assegno di mantenimento al figlio maggiorenne, anche se ancora studente.

Così la Corte ha ribaltato la sentenza di condanna inflitta dai giudici di merito, ritenendo, di contro, che il fatto censurato non costituisse il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570, comma 2, n. 2 c.p. in quanto la ragazza, sebbene fosse studentessa universitaria, non era inabile a lavoro.

In particolare i giudici di merito avevano accertato che, deceduta la madre, la figlia aveva abbandonato volontariamente il domicilio domestico, sicché il padre, a partire dal momento dell'allontanamento, aveva omesso il versamento dell'assegno stabilito quale contributo per il suo mantenimento.

Per tali fatti, sia il Tribunale di Ascoli Piceno che la Corte di Appello di Ancona avevano condannato l'uomo alla pena di legge per il reato di cui all'art. 570, comma secondo n. 2, c.p., per avere omesso di versare le somme stabilite dal giudice in favore della figlia, studentessa universitaria.

L'uomo proponeva ricorso per Cassazione deducendo la violazione di legge penale ed il vizio di motivazione, per erronea applicazione del disposto di cui all'art. 570 c.p.. 

Il ricorrente evidenziava di non aver mai tenuto alcun comportamento contrario all'ordine ed alla morale della famiglia, né di essersi mai sottratto agli obblighi di assistenza relativi alla responsabilità genitoriale: la figlia, infatti, si era volontariamente allontanata di casa, lasciando ignaro il padre di dove fosse la sua nuova dimora; all'epoca dei fatti la persona offesa era comunque maggiorenne e, sebbene ancora studentessa, di fatto – svolgendo un lavoro part-time – aveva raggiunto una condizione di autosufficienza economica, sicché faceva difetto lo stato di bisogno.

La Cassazione condivide le tesi difensive dell'imputato, ritenendo che il reato contestato non sia mai stato integrato perché il fatto non sussiste.

In punto di diritto gli Ermellini rilevano come il mancato versamento dell'assegno di mantenimento non integra, necessariamente, l'ipotesi delittuosa, in quanto l'onere di prestare i mezzi di sussistenza, penalmente sanzionato, ha un contenuto soggettivamente e oggettivamente più ristretto di quello delle obbligazioni previste dalla legge civile, potendo sussistere la fattispecie delittuosa di cui all'art. 388 c.p.. qualora ricorrano i requisiti previsti da tale norma (segnatamente il compimento di atti fraudolenti diretti ad eludere gli obblighi di cui trattasi). 

 In particolare, l'art. 570, comma secondo n. 2, c.p. punisce colui il quale "fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore ovvero inabili al lavoro (...)": il reato è integrato non tutte le volte in cui vi sia l'inadempimento all'obbligazione civilistica, ma solo quando, con dolo, l'assegno di mantenimento non è versato al figlio minorenne o, se maggiorenne, al figlio che sia inabile al lavoro.

Con specifico riferimento al caso in cui il genitore non abbia corrisposto i mezzi di sussistenza al figlio maggiorenne è necessario, ancor prima di interrogarsi sull'esistenza del dolo, chiarire quando ricorra l'inabilità al lavoro.

Sul punto, la giurisprudenza – in una fattispecie nella quale il figlio maggiorenne, a cui l'imputato aveva fatto mancare i mezzi di sussistenza, era stata riconosciuta una riduzione permanente della capacità lavorativa inferiore al 75% – ha ritenuto insussistente il reato, chiarendo che l'inabilità al lavoro va intesa, in base alla definizione contenuta negli artt. 2 e 12 della l. n. 118 del 1971, come totale e permanente inabilità lavorativa.

Con specifico riferimento al caso di specie, il presupposto dell'incriminazione consistente nell'inabilità a lavoro è insussistente: era stato accertato, infatti, che la ragazza non era inabile al lavoro e, infatti, svolgeva un lavoro con contratto part-time.

In virtù di tanto, la Cassazione ritiene che il fatto non sussiste; di conseguenza, accoglie il ricorso dell'uomo e annulla senza rinvio la sentenza di condanna.

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