Socrate, figlio di Sofronisco del demo di Alopece (in greco antico: Σωκράτης, Sōkrátēs; Atene, 470 a.C./469 a.C. – Atene, 399 a.C.), è stato un filosofo greco antico, uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale. Il contributo più importante che egli ha dato alla storia del pensiero filosofico consiste nel suo metodo d'indagine: il dialogo che utilizzava lo strumento critico dell'elenchos (ἔλεγχος, élenchos = "confutazione") applicandolo prevalentemente all'esame in comune (ἐξετάζειν, exetάzein) di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell'etica o filosofia morale.
Per le vicende della sua vita e della sua filosofia che lo condussero al processo e alla condanna a morte è stato considerato, dal filosofo e classicista austriaco Theodor Gomperz, il «primo martire per la causa della libertà di pensiero e d'investigazione».
«...dall'antichità ci è pervenuto un quadro della figura di Socrate così complesso e così carico di allusioni che ogni epoca della storia umana vi ha trovato qualche cosa che le apparteneva. Già i primi scrittori cristiani videro in Socrate uno dei massimi esponenti di quella tradizione filosofica pagana che, pur ignorando il messaggio evangelico, più si era avvicinata ad alcune verità del Cristianesimo. Il continuo dialogare di Socrate, attorniato da giovani affascinati dalla sua dottrina e da importanti personaggi, nelle strade e piazze della città fece sì che egli venisse scambiato per un sofista dedito ad attaccare imprudentemente e direttamente i politici. Il filosofo, infatti, dialogando con loro dimostrò come la loro vantata sapienza in realtà non esistesse. Socrate venne quindi ritenuto un pericoloso nemico politico che contestava i tradizionali valori cittadini.Per questo Socrate, che aveva attraversato indenne i regimi politici precedenti, che era rimasto sempre ad Atene e che non aveva mai accettato incarichi politici, fu accusato e messo sotto processo, dal quale poi sarebbe derivata la sua condanna a morte.Causa materiale del processo furono due esponenti di rilievo del regime democratico, Anito e Licone, i quali, servendosi di un prestanome, Meleto, un giovane ambizioso, fallito letterato, accusarono il filosofo di:
L'accusa di "ateismo", che rientrava in quella di "empietà" (ἀσέβεια, asebeia), condannato da un decreto di Diopeithes all'incirca nel 430 a.C., fu evidentemente un pretesto giuridico per un processo politico, poiché l'ateismo era sì ufficialmente riprovato e condannato ma tollerato e ignorato se affermato privatamente.Poiché la religione e la cittadinanza erano ritenute un tutt'uno, accusando Socrate di ateismo lo si incolpò di avere cospirato contro le istituzioni e l'ordine pubblico. D'altra parte Socrate non aveva mai negato l'esistenza degli dei della città ed eluse facilmente l'accusa sostenendo di credere in un dáimon, creatura minore figlia delle divinità tradizionali.Lisia si offrì di difendere Socrate, ma egli rifiutò probabilmente perché non voleva confondersi con i sofisti e preferì difendersi da solo. Descritto da Platone nella celebre Apologia di Socrate, il processo evidenziò due elementi:
Riguardo all'accusa di corrompere i giovani essa va spiegata con il fatto che Socrate era stato maestro di Crizia e di Alcibiade, due personaggi che nell'Atene della restaurazione democratica godevano di pessima fama. Crizia era stato il capo dei Trenta tiranni e Alcibiade, per sfuggire al processo che gli era stato intentato, aveva tradito Atene ed era passato a Sparta, combattendo contro la propria patria. Furono tali rapporti di educatore che ebbe con questi due personaggi a porre le basi dell'accusa di corrompere i giovani. Oggi la critica più attenta ha dimostrato che il processo e la morte di Socrate non furono un avvenimento incomprensibile rivolto contro un uomo, apparentemente trascurabile e non pericoloso per il regime democratico, che voleva ricostruire un'unità politica e spirituale all'interno della città. Uno studioso inglese scrive infatti che fu principalmente:«[...] la diffidenza suscitata dai rapporti di Socrate con i "traditori" che spinse i capi della restaurata democrazia a sottoporlo a processo nel 400-399. Alcibiade e Crizia erano morti entrambi, ma i democratici non si sentivano al sicuro finché l'uomo che s'immaginava avesse ispirato i loro tradimenti esercitava ancora influenza sulla vita pubblica.»Il processo[modifica | modifica wikitesto]Il processo si tenne nel 399 a.C. innanzi a una giuria di 501 cittadini di Atene e, com'era da aspettarsi per una figura come quella di Socrate, fu atipico: egli si difese contestando le basi del processo, anziché lanciarsi in una lunga e pregevole difesa o portando in tribunale la sua famiglia per impietosire i giudici, come di solito si faceva. Fu riconosciuto colpevole per appena trenta voti di margine. Dopodiché, come previsto dalle leggi dell'Agorà, sia Socrate sia Meleto dovettero proporre una pena per i reati di cui l'imputato era stato accusato. Socrate sfidò i giudici proponendo loro di essere mantenuto a spese della collettività nel Pritaneo, poiché riteneva che anche a lui dovesse essere riconosciuto l'onore dei benefattori della città, avendo insegnato ai giovani la scienza del bene e del male. Poi consentì di farsi multare, seppur di una somma ridicola (una mina d'argento dapprima, cioè tutto quello che egli possedeva; trenta mine poi, sotto pressione dei suoi seguaci, che si fecero garanti per lui). Meleto chiese invece la morte.Furono messe ai voti le proposte: con ampia maggioranza (360 voti a favore contro 140 contrari), più per l'impossibilità di punire Socrate multandolo di una somma così ridicola che per l'effettiva volontà di condannarlo a morte, gli ateniesi accolsero la proposta di Meleto e lo condannarono a morire mediante l'assunzione di cicuta. Era pratica diffusa autoesiliarsi dalla città pur di sfuggire alla sentenza di morte, ed era probabilmente su questo che contavano gli stessi accusatori. Socrate dunque intenzionalmente irritò i giudici, che non erano in realtà mal disposti verso di lui; Socrate in effetti aveva già deciso di non andare in esilio, in quanto anche fuori di Atene avrebbe persistito nella sua attività: dialogare con i giovani e mettere in discussione tutto quello che si vuol far credere verità certa.Sostenne Socrate:«Perciò mi ritroverò a rivivere la stessa situazione che mi ha portato alla condanna: qualcuno dei parenti dei miei giovani discepoli si irriterà della mia ricerca della verità e mi accuserà.»Del resto, egli non temeva la morte, che nessuno sa se sia o no un male, ma la preferiva all'esilio, per lui sì un male sicuro. Come racconta Platone nel dialogo del Critone, Socrate, pur sapendo di essere stato condannato ingiustamente, una volta in carcere rifiutò le proposte di fuga dei suoi discepoli, che avevano organizzato la sua evasione corrompendo i carcerieri. Ma Socrate non sfuggirà alla sua condanna poiché «è meglio subire ingiustizia piuttosto che commetterla»; egli accetterà la morte che d'altra parte non è un male perché o è un sonno senza sogni, oppure darà la possibilità di visitare un mondo migliore dove, dice Socrate, s'incontreranno interlocutori migliori con cui dialogare. Quindi egli continuerà persino nel mondo dell'aldilà a professare quel principio a cui si è attenuto in tutta la sua vita: il dialogo.Si pone a questo punto uno dei temi più dibattuti della questione socratica, cioè il rapporto tra Socrate e le leggi: perché Socrate accetta l'ingiusta condanna? «È giunto ormai il tempo di andare, o giudici, io per morire, voi per continuare a vivere. Chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al dio.»(Platone, Apologia di Socrate, 42a). Socrate trascorre serenamente, secondo le sue abitudini, la sua ultima giornata in compagnia dei suoi amici e discepoli, dialogando di filosofia come aveva sempre fatto, e in particolare affrontando il problema dell'immortalità dell'anima e del destino dell'uomo nell'aldilà.Quindi Socrate si reca in una stanza a lavarsi per evitare alle donne il fastidio di accudire al suo cadavere. Tornato nella cella, dopo aver salutato i suoi tre figlioli (Sofronisco, dal nome del nonno, Lamprocle e il piccolo Menesseno) e le donne di casa, li invita ad andarsene. Scende il silenzio nella prigione sino a quando giunge il messo degli Undici ad annunciare a quel singolare prigioniero, così diverso dagli altri, come egli dice, per la sua gentilezza, mitezza e bontà, che è giunto il tempo di morire. L'amico Critone vorrebbe che il maestro, come hanno sempre fatto gli altri condannati a morte, rimandasse ancora l'ultima ora poiché non è ancora il tramonto, il tempo stabilito dalla condanna, ma Socrate:Socrate decide di bere la cicuta, in un fumetto novecentesco.«È naturale che costoro facciano così perché credono d'aver qualcosa da guadagnare...[io] credo di non aver altro da guadagnare, bevendo un poco più tardi [il veleno], se non di rendermi ridicolo a' miei stessi occhi, attaccandomi alla vita e facendone risparmio quando non c'è più niente da risparmiare...»Giunto il carceriere incaricato della somministrazione della cicuta Socrate si rivolge a lui, poiché in questo "dialogo" è lui il più "sapiente", chiedendogli che cosa si deve fare e se si può libare a un qualche dio. Il boia risponde che basta bere il veleno che è della giusta quantità per morire e non è quindi possibile usarne una parte per onorare gli dei. Socrate allora dice che si limiterà a pregare la divinità perché gli assicuri un felice trapasso e, così detto, beve la pozione. Gli amici a questo punto si abbandonano alla disperazione ma Socrate li rimprovera facendo, lui che sta morendo, a loro coraggio:«Che stranezza è mai questa, o amici, non per altra ragione io feci allontanare le donne perché non commettessero di tali discordanze. E ho anche sentito dire che con parole di lieto augurio bisogna morire. Orsù dunque state quieti e siate forti»Il paralizzarsi e il raffreddarsi delle membra, divenute insensibili, dai piedi verso il torace, segnala il progressivo avanzare del veleno:«E ormai intorno al basso ventre era quasi tutto freddo; ed egli si scoprì – perché s'era coperto – e disse, e fu l'ultima volta che udimmo la sua voce: «O Critone, noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio: dateglielo e non dimenticatevene!» |
Apologia di Socrate Prima parte
L'accusa ha esposto le sue ragioni; l'accusato, Socrate, replica con le sue controdeduzioni
I. [17a] Non so, o Ateniesi, che impressione vi sia rimasta dei miei accusatori; io, davvero, mi sono
quasi dimenticato di me stesso, da quanto parlavano persuasivamente. Eppure non hanno detto quasi
niente di vero. Ma mi ha stupito soprattutto una delle loro molte bugie: hanno detto che dovevate
cercare di non farvi ingannare da me, perché [17b] sono abile (deinos) nel parlare. La cosa più
vergognosa mi è sembrata appunto il loro non aver ritegno di venir confutati da me con i fatti, quando
non apparirò per nulla abile (deinos) nel parlare - a meno che non chiamino così chi dice la verità. In
questo caso, sarei d'accordo: sono un retore, ma non al modo in cui essi lo intendono. Essi - dico -
hanno detto poco o nulla di vero, ma voi non sentirete da me null'altro che la verità. E non userò
affatto, o Ateniesi, discorsi come i loro, ben fraseggiati [17c] nelle espressioni e nei termini, e
bellamente disposti: voi sentirete da me cose argomentate disordinatamente, con le prime parole che
mi capitano a tiro - infatti io credo che quello che dico sia vero - e nessuno di voi si aspetti altro.
Perché a questa età non starebbe bene venire da voi facendo discorsi come un ragazzino. E anzi,
Ateniesi, questo vi chiedo e vi supplico: se mi sentirete difendermi con gli stessi discorsi che sono
abituato a fare in piazza, presso i banchi dei trapeziti [cambiavalute], dove molti di voi mi hanno udito,
e altrove, [17d] non ve ne stupite e non mormorate. Infatti così stanno le cose: sono quassù in tribunale
per la prima volta a settant'anni, e perciò sono del tutto estraneo a questo modo di esprimersi (lexis).
Perciò, come forse mi perdonereste, se fossi veramente straniero, [18a] di parlare con la lingua e alla
maniera in cui sono stato educato, così ora vi chiedo - giustamente, mi sembra - di aver comprensione
per il mio modo di esprimermi, buono o cattivo che sia, e di considerare invece attentamente se dico o
no cose giuste, perché questa è la virtù (arete) del giudice, mentre quella dell'oratore è dire la verità.
II. In ogni caso, Ateniesi, è giusto che mi difenda innanzitutto dalle prime accuse false e dai primi
accusatori, e poi dalle accuse e dagli accusatori successivi. [18b] Infatti, molti miei accusatori sono
venuti da voi in passato senza dire nulla di vero, e raccontano il falso su di me già da molti anni. Io ho
più paura di loro che di quelli che stanno attorno ad Anito, per quanto siano anch'essi terribili. Ma gli
antichi accusatori sono più temibili, cittadini, perché vi hanno indotto a creder loro prendendovi sotto
controllo da bambini, e mi hanno accusato di più, senza nessuna verità, dicendo: "C'è un certo Socrate,
uomo sapiente, che strologa su quello che sta per aria e investiga su quello che sta sottoterra, e che fa
del discorso più debole il più forte" [18c] Questi, che diffusero su di me una fama simile, sono i miei
accusatori terribili, cittadini ateniesi, perché il loro uditorio ritiene che chi fa simili ricerche non creda negli dei. Inoltre, questi accusatori sono molti e mi accusano già da molto tempo; per di più, hanno
parlato con voi a quell'età in cui si è più fiduciosi, quando alcuni di voi erano ragazzi e altri bambini, e
mi hanno portato in giudizio in contumacia, senza nessuno che mi difendesse. Ma la cosa più assurda è
che [18d] non si sappiano né si dicano i loro nomi, a meno che a qualcuno non capiti di essere un poeta
comico. Quelli che vi hanno persuaso, attaccandomi con l'invidia e la calunnia - e quelli che, una volta
persuasi essi stessi, hanno persuaso altri - sono tutti avversari intrattabili: infatti non è possibile far
comparire qui nessuno di loro per confutarlo, ma sono costretto a difendermi semplicemente come se
stessi combattendo con l'ombra, e a controinterrogare senza nessuno a rispondere. Considerate dunque
la duplicità dei miei accusatori: gli uni sono quelli che mi accusano ora, e gli altri [18e] sono quelli
che, come dicevo, lo hanno fatto in passato. E' opportuno che mi difenda prima da questi ultimi,
perché li udiste accusarmi prima e molto più degli accusatori recenti.
Bene. Allora tocca difendersi, o cittadini ateniesi, e tentare di [19a] sradicare da voi, in così poco
tempo, una calunnia così antica. Mi auguro che così sia, se è qualcosa di buono per me e per voi, e che
riesca a difendermi. Ma io stesso penso che sia difficile e non me lo nascondo. Tuttavia, vada come a
dio piace: c'è da obbedire alla legge e difendersi.
III. Riconsideriamo dunque dal principio quale sia l'accusa da cui [19b] è derivata la calunnia,
prestando fede alla quale Meleto ha intrapreso la sua azione giudiziaria contro di me. Ebbene: dicendo
che cosa mi hanno diffamato i diffamatori? Bisogna leggere la loro deposizione come se fosse una
denuncia vera e propria. "Socrate è un criminale e un perditempo, che indaga su quello che sta in cielo
e sottoterra, fa del discorso più debole il più forte, [19c] e insegna lo stesso agli altri." Si tratta di
qualcosa del genere. Anche voi vedevate nella commedia di Aristofane un Socrate che, andando in
giro per la scena, afferma di camminare in aria e dice molte altre sciocchezze, di cui io non so né tanto
né poco. E non lo dico per disprezzare una simile scienza, se c'è qualcuno che ne è esperto - non vorrei
che Meleto mi accusasse anche di questo - ma io, Ateniesi, non ci ho niente a che fare. [19d] Su
questo, presento come testimone la gran parte di voi, e chiedo a tutti quelli che una volta mi hanno
ascoltato discutere - e ce ne sono tanti fra voi - di mostrarvi e di indicarvi reciprocamente. Indicate
dunque se c'è qualcuno fra voi che mi sentì mai disputare, tanto o poco, su cose del genere. E verrete a
sapere che è così anche per il resto di ciò che i più dicono di me.
IV. Ma niente di ciò è vero, e se avete sentito dire da qualcuno che io educo la gente e [19e] faccio
soldi, è falso anche questo. Anche a me, certo, sembra bello se qualcuno sa educare gli uomini, come
fa Gorgia di Leontini, Prodico di Ceo e Ippia di Elide. Ciascuno di loro, Ateniesi, è in grado di andare
in ogni città e convincere i giovani - i quali potrebbero anche, gratuitamente, stare insieme ai loro
concittadini preferiti - [20a] ad abbandonare la comunità (synousia) di questi ultimi, a frequentare loro
a pagamento e ad essere pure grati. E c'è un altro esperto, uno di Paro, che venni a sapere essere in
città: infatti mi imbattei in Callia figlio d'Ipponico, un uomo che ha pagato ai sofisti più soldi di tutti
gli altri insieme, e gli chiesi - egli ha due figli -:
- Callia, se i tuoi due figli fossero un paio di puledri o di vitelli, dovremmo prendere uno che li governi
e stipendiarlo perché [20a] sviluppi in loro l'eccellenza (arete) appropriata, cioè un esperto di cavalli o
di agricoltura. Ma, dal momento che sono uomini, chi hai in mente di assumere? Uno che ha
conoscenza della virtù (arete) umana e politica? Penso, infatti, che tu ci abbia riflettuto sopra, dato che
i figli sono tuoi. C'è qualcuno di questo genere o no? -
- Certamente - disse lui.
- Chi è? - dissi io - E di che paese è? E a quanto insegna? - E' Eveno di Paro - rispose - e si fa pagare cinque mine. -
Beato Eveno - mi congratulai io - [20c] se ha veramente quest'arte (techne) e la insegna ad un prezzo
così ragionevole. Anch'io, in ogni caso, sarei fiero e vanitoso se sapessi insegnarla. Ma non ne sono
capace, Ateniesi.
V. Ora qualcuno di voi potrebbe ribattere:
- Socrate, ma come la mettiamo? Da dove sono venute fuori queste calunnie contro di te? Non avresti
una reputazione di questo genere senza immischiarti in niente di diverso degli altri, a meno che tu non
faccia, appunto, qualcosa d'altro. Dicci [20d] come stanno le cose, perché non vogliamo esprimere
giudizi improvvisati su di te. -
Questa - mi sembra - è una obiezione giusta. Tenterò di mostrarvi le cause della mia fama e della mia
diffamazione. E perciò ascoltatemi. Ad alcuni di voi sembrerà che io scherzi, ma - non dimenticatelo -
dirò tutta la verità. E' vero, cittadini ateniesi, io ho questa fama solo per una certa mia sapienza
(sophia). Ma che tipo di sapienza? Quella che è, forse, sapienza umana. Oso dire, infatti, di essere
esperto di questa sapienza. Invece quelli [20e] di cui parlavo poco fa possono ben essere esperti di una
sapienza più che umana, su cui non ho nulla da dire, perché io stesso non ne so nulla, e chi afferma il
contrario mente e parla per diffamarmi.
Per favore, cittadini ateniesi, non interrompetemi, anche se quanto dico vi apparirà presuntuoso,
perché il discorso che vi riferirò non è mio, ma di qualcuno ai vostri occhi più degno. Sulla mia
sapienza - se di un qualche genere di sapienza si tratta - presenterò come testimone il dio di Delfi.
Avete avuto modo di conoscere Cherefonte. [21a] Fu mio compagno fin da giovane, e fu compagno
vostro - del popolo - e condivise con voi l'esilio e il ritorno. Sapete dunque com'era Cherefonte, così
impulsivo in tutto quello cui metteva mano. Bene, una volta si recò a Delfi e si permise di interrogare
l'oracolo su questo - non schiamazzate su ciò che dico, cittadini - perché gli chiese se ci fosse
qualcuno più sapiente di me. E la Pizia rispose che nessuno era più sapiente. Di questo vi darà
testimonianza suo fratello, dal momento che Cherefonte è morto.
VI. [21b] E considerate perché vi dico questo: sto per spiegarvi da dove è nata la calunnia contro di
me. Io infatti, udito il responso dell'oracolo, feci questa riflessione: "Che cosa vuol dire il dio? Che
cosa nasconde il suo parlare enigmatico? Sono consapevole di non essere affatto sapiente: che cosa
intende, allora, dichiarando che sono il più sapiente? Egli certo non mente, perché non può." Rimasi
per molto tempo in dubbio su quanto detto dal dio. Poi, con riluttanza, mi volsi a una ricerca di questo
genere: mi recai da qualcuno di quelli ritenuti sapienti, per [21c] confutare l'oracolo e dimostrargli
proprio lì "Questo è più sapiente di me, mentre tu dicevi che il più sapiente ero io." Esaminandolo con
cura e discutendo con lui - non occorre far nomi, ma colui dal quale ebbi questa impressione, cittadini
ateniesi, era un uomo politico - mi sembrò che quest'uomo apparisse sapiente a molti altri e soprattutto
a se stesso, ma non lo fosse. Perciò cercai di dimostrargli che si riteneva sapiente, ma non lo era. [21d]
E così diventai odioso a lui e a molti dei presenti. Ma, andandomene, pensai fra me e me: "Sono più
sapiente di questa persona: forse nessuno dei due sa nulla di buono, ma lui pensa di sapere qualcosa
senza sapere nulla, mentre io non credo di sapere anche se non so. Almeno per questo piccolo
particolare, comunque sia, sembro più sapiente di lui: non credo di sapere quello che non so." Mi recai
poi da un altro di quelli che passavano per sapienti e [21e] ne ebbi la stessa impressione, e divenni
odioso a lui e a molti altri.
VII. E continuai ad andare dall'uno all'altro: mi rendevo conto, con amarezza e timore, di essere
odioso, ma mi sembrava necessario trattare ciò che concerne il dio come cosa della massima
importanza. Per questo era doveroso recarsi, per esaminare il senso dell'oracolo, proprio da tutti [22a]
quelli che sembravano sapienti. E per il cane, Ateniesi, - bisogna che vi dica la verità - la mia esperienza fu davvero questa: a me, che indagavo per il dio, coloro che godevano di una migliore
reputazione sembrarono quasi i più carenti, mentre quelli che passavano per inferiori risultarono
uomini più dotati di discernimento. Occorre, allora, che vi esponga la mia peregrinazione, cioè la
storia delle fatiche che ho affrontato per corroborare l'oracolo. Dopo essere stato dai politici, mi rivolsi
ai poeti, ai compositori di tragedie, [22b] di ditirambi e di altri generi, per cogliermi sul fatto come più
ignorante di loro. E prendendo in mano i lavori che mi sembravano meglio composti, andavo
chiedendo ai loro autori che cosa volessero dire, anche per imparare qualcosa. Cittadini, mi vergogno a
dirvi la verità, ma lo si deve pur fare: sulle loro composizioni quasi tutti i presenti ragionavano meglio
di loro. Così, di nuovo, mi resi subito conto che i poeti non fanno ciò che fanno per sapienza, [22c] ma
per una qualche disposizione naturale (physei) e come divinamente ispirati (enthousiazontes), alla
maniera dei profeti e dei veggenti: anch'essi, infatti, dicono molte cose belle, ma non sanno nulla di
ciò che dicono. Anche i poeti - mi divenne chiaro - sono soggetti a una esperienza simile; nello stesso
tempo mi accorsi che essi pensavano, per la loro poesia, di essere i più sapienti degli uomini anche sul
resto, ove non lo erano. Così me ne andai anche da là ritenendomi superiore a loro proprio come lo ero
nei confronti degli uomini politici.
VIII. Per finire, andai dagli artigiani (cheirotechnes): [22d] io stesso, infatti, ero consapevole di non
sapere quasi nulla, ma avevo avuto modo di apprendere che li avrei trovati esperti in molte cose belle.
E in questo non mi ero ingannato, perché essi sapevano cose che io non sapevo e così erano più
sapienti di me. Tuttavia, cittadini ateniesi, mi sembrò che anche gli artigiani bravi incorressero nello
stesso errore dei poeti: ciascuno di loro, dal momento che lavorava bene nell'ambito della sua arte
(techne), si stimava molto esperto anche in altre importantissime questioni e questa stonatura tendeva a
nascondere la loro sapienza. [22e] Allora interrogai me stesso, per conto dell'oracolo, chiedendomi se
preferissi essere come sono io, né sapiente alla loro maniera, né ignorante al loro modo, oppure come
sono loro. E risposi a me stesso e all'oracolo che mi andava bene essere come sono.
IX. Da questa indagine, cittadini ateniesi, [23a] mi sono derivate molte inimicizie, tanto aspre e
violente da dare origine a numerose calunnie e alla mia fama di sapiente. Infatti i presenti pensano
ogni volta che io sia esperto di quello su cui ho confutato un altro. Ma potrebbe darsi, cittadini, che il
dio sia effettivamente sapiente e che in questo oracolo voglia dire che la sapienza umana vale poco o
nulla; è evidente che questi menziona Socrate e [23b] ha dato il suo responso col mio nome, prendendo
me come esempio, come per dire: "Uomini, il più sapiente fra voi è chi, come Socrate, ha riconosciuto
che in verità non è di nessun valore, per quanto concerne la sapienza." In ogni caso, anche ora,
andandomene in giro, cerco ed esamino secondo l'ordine del dio chiunque, cittadino o forestiero, io
creda sapiente; e ogni volta che non mi appare tale, vengo in aiuto al dio e dimostro che non lo è. E a
causa di questa occupazione non ho avuto tempo di fare nulla di notevole né negli affari della città, né
in quelli di casa, ma, [23c] per il servizio al dio, sono infinitamente povero.
X. Inoltre, i giovani che hanno più tempo libero, cioè i figli dei più ricchi, mi frequentano per loro
scelta, si divertono a sentirmi mettere alla prova le persone, e spesso mi imitano essi stessi e tentano di
esaminarne altre. Così trovano - credo - una grande abbondanza di persone che sono convinte di sapere
qualcosa ma sanno poco o nulla. E quelli che essi mettono alla prova si arrabbiano con me, invece che
con se stessi, [23d] e dicono che un certo Socrate è oltremodo abominevole e corrompe i giovani. E se
qualcuno chiede loro "facendo o insegnando che cosa?", non sanno che dire e per non apparire in
imbarazzo, dicono tutto quello che hanno sottomano contro chi fa filosofia: insegna "ciò che sta per
aria e ciò che è sottoterra", a "non credere negli dei" e a "fare del discorso più debole il più forte".
Perché la verità - venire scoperti come persone che fanno finta di sapere ma non sanno - non gli
piacerebbe dirla. Ed essendo - penso - ambiziosi, [23e] violenti e numerosi e parlando di me in
maniera concertata e persuasiva, vi hanno riempito gli orecchi di robuste calunnie. Su questa base mi
hanno attaccato Meleto, Anito e Licone: Meleto irritato per i poeti, Anito per gli artigiani e [24a] gli
uomini politici, Licone per i retori. Così, come dicevo in principio, mi stupirei se riuscissi a sradicare da voi, in così poco tempo, un pregiudizio divenuto così grande. Questa è la verità, cittadini ateniesi, e
vi parlo senza nascondervi nulla, grande o piccolo che sia, e senza riserve. E so piuttosto bene che in
questo modo mi rendo odioso - ma ciò è anche prova che dico la verità, che la calunnia contro di me è
questa e queste ne [24b] sono le cause. E se le cercherete, ora o in futuro, vedrete da voi che è così.
XI. Su quanto dicevano contro di me i primi accusatori, basti, davanti a voi, questa autodifesa. Ora
tenterò di difendermi davanti a Meleto, l'uomo perbene, il patriota, come dice di essere, e dagli
accusatori più recenti. Riprendiamo dunque ancora il loro atto d'accusa, come se essi fossero altri
accusatori.
XII. L'atto di accusa è pressappoco così: Socrate - dice - è un criminale perché corrompe i giovani e
non crede [24c] negli dei in cui crede la città, ma in altre entità divine di nuovo conio. Questa dunque è
l'accusa: esaminiamola punto per punto. Dice che sono colpevole perché corrompo i giovani. Ma io
dico, cittadini ateniesi, che è Meleto a commettere ingiustizia, perché fa lo spiritoso sulle cose serie, e
con leggerezza porta in giudizio le persone, fingendo di preoccuparsi e darsi pena di faccende di cui
non s'è mai curato per niente. Le cose stanno così, e cercherò di dimostrarlo anche a voi. Vieni qui,
Meleto, e dimmi: non consideri [24d] della massima importanza che i giovani siano quanto possibile
migliori?
- Io sì. -
- Dillo allora a queste persone: chi li rende migliori? Evidentemente lo sai, visto che ti interessa tanto.
Hai trovato chi li corrompe, me, come tu dici, e per questo mi conduci davanti a questi giudici e mi
accusi. Su, di' dunque chi li rende migliori, rivelagli chi è. Lo vedi, Meleto, che stai zitto e non sai che
dire? Non ti sembra vergognoso? Non ti sembra un prova sufficiente di quello che dico io, e cioè che
dei giovani non te n'è mai importato nulla? Ma dimmi, caro, chi li rende migliori? -
- I costumi e le leggi (oi nomoi). -
- [24e] Ma non ti chiedo questo, mio caro amico, bensì quale persona, chi, in primo luogo, conosce,
appunto, i costumi e le leggi? -
- Loro, Socrate, i giudici. -
- Come dici, Meleto? Che sono capaci di educare i giovani e di renderli migliori? -
- Certamente. -
- Proprio tutti, oppure alcuni sì e altri no? -
- Proprio tutti. -
- Ben detto, per Hera! C'è tanta gente ad aiutarli! Ma allora questi che ci stanno ad ascoltare li rendono
migliori, [25a] o no? -
- Si', anche questi. -
- Ed anche i membri della Bulé? -
- Anche loro. -
- Ma, Meleto, non sono i componenti dell'ecclesia, a corrompere i più giovani? Oppure anch'essi, tutti
insieme, li rendono migliori? -
- Anch'essi. -
- Ma allora. a quanto pare, tutti gli Ateniesi li rendono migliori, tranne me. Sono soltanto io a
corromperli. E' così che dici? -
- Affermo proprio questo, con forza. -
- Mi hai condannato a una gran disgrazia davvero. Ma rispondimi: ti sembra così nel caso dei cavalli,
che [25b] a migliorarli siano tutti gli uomini, e uno solo a rovinarli? Oppure, al contrario, a saperli
migliorare sono uno solo o pochissimi - gli esperti di ippica - mentre la maggioranza, se ha a che fare
con i cavalli e li usa, li danneggia? Non è così, Meleto, per i cavalli e tutti gli altri animali? Certamente
è così, lo diciate o no tu e Anito. Perché, per quanto riguarda i giovani, sarebbe davvero una bella
fortuna che uno solo li corrompesse e tutti gli altri [25c] fossero loro d'aiuto. No, Meleto, è abbastanza
evidente che ai giovani non hai mai pensato e la tua negligenza si mostra chiaramente: non ti è mai
importato nulla di quello per cui mi porti in giudizio.
XIII. Dimmi ancora, Meleto, per Zeus, è meglio vivere fra cittadini buoni o cattivi? Rispondi, amico,
non ti sto chiedendo nulla di difficile! I cattivi non fanno forse del male a chi gli sta sempre vicino,
mentre i buoni del bene? -
- Senza dubbio. -
- [25d] C'è dunque qualcuno che voglia essere danneggiato dalle persone con cui sta assieme, piuttosto
che trarne vantaggio? Rispondi, mio caro amico: anche la legge te lo impone. C'è qualcuno che vuole
essere danneggiato? -
- No di certo. -
- Su, allora: mi porti qui in tribunale in quanto corrompo i giovani e li rendo più cattivi
volontariamente o involontariamente? -
- Volontariamente. -
- E allora, Meleto? Alla tua età sei tanto più sapiente di me alla mia, da aver riconosciuto che i cattivi
fanno sempre del male a chi sta loro più vicino, [25e] mentre i buoni del bene. Io, invece, sarei stato
tanto ignorante da non rendermi conto che se rendessi malvagio chi sta con me, rischierei di ricevere
del male da lui: tu dici che farei una simile cattiva azione volontariamente? Meleto, io non ci credo, e
penso che non ci creda nessun'altro. Piuttosto, o non corrompo i giovani, o, se li corrompo, [26a] lo
faccio senza volerlo, e dunque tu menti in entrambi i casi. Se li corrompo involontariamente, non è
d'uso fare causa per simili errori, bensì prendere da parte chi sbaglia, per spiegargli perché e
ammonirlo. E' chiaro, infatti, che una volta resomi conto dell'errore, smetterò di fare ciò che in ogni
caso compio involontariamente. Ma tu hai evitato di stare con me e di darmi insegnamento e non ne
hai avuto voglia, e mi porti qui in tribunale, dove si usa condurre chi ha bisogno di essere punito ma
non chi ha bisogno di imparare.
XIV. Ma quello che dicevo è ormai chiaro, Ateniesi: [26b] di queste cose a Meleto non è mai
importato né tanto né poco. Tuttavia, Meleto, dicci: in che modo secondo te corrompo i più giovani?
Oppure è evidente che, secondo l'accusa che hai scritto, li corrompo insegnando loro a non credere
negli dei in cui crede la città, ma in altre e nuove divinità demoniche? Non dici che corrompo insegnando? -
- Dico proprio questo, decisamente. -
- Allora. Meleto, per questi stessi dei di cui stiamo discutendo, dillo ancora più chiaramente a me [26c]
e a questi cittadini. Perché non riesco a capire se tu dici che insegno a credere che ci sono degli dei - e
io stesso perciò credo che ci sono dei e non sono affatto ateo, né colpevole di questo - i quali però non
sono certo quelli della città, bensì altri, e per questo mi citi in giudizio, oppure se sostieni che io non
credo assolutamente agli dei e insegno agli altri a fare altrettanto. -
- Dico che tu non credi assolutamente negli dei. -
- Stupefacente Meleto, perché dici questo? Dunque non credo, come le altre persone, che il sole e la
luna siano dei? -
- No, giudici, per Zeus, dato che dice che il sole è pietra e la luna terra! -
- Caro Meleto, credi di accusare Anassagora? Stimi così poco i giudici e li credi così poco familiari
con la scrittura, da non sapere che di questi discorsi sono pieni i libri di Anassagora di Clazomene?
Allora i giovani imparano da me cose che si possono [26e] avere nell'orchestra per una dracma,
talvolta, a dir tanto, così da mettere Socrate in ridicolo, se fa finta che siano sue perché sono strane in
un modo o nell'altro? Ma per Zeus, ti sembro così? Non credo in nessun dio? -
- Assolutamente no, per Zeus! -
- Meleto, non sei credibile neppure a te stesso, mi pare. Perché a me sembra, cittadini Ateniesi, che
egli sia assolutamente presuntuoso ed avventato, e che mi abbia accusato semplicemente per un
qualche genere di insolenza e per avventatezza giovanile, [27a] come per mettermi alla prova con un
enigma: "Socrate il sapiente si accorgerà che io parlo per scherzo e contraddittoriamente, oppure
riuscirò ad ingannare lui e tutti gli altri ascoltatori?" Perché mi sembra che nell'accusa si contraddica,
come se dicesse: "Socrate è un criminale perché non crede negli dei, ma crede negli dei." E questo è
veramente da giocherellone.
XV. Guardate con me, cittadini, in che modo mi sembra dire questo; e tu, Meleto, rispondici. Voi,
[27b] come vi avevo pregato all'inizio, ricordatevi di non fare chiasso se argomento alla mia consueta
maniera.
- Meleto, c'è qualche persona che crede che ci siano realtà umane, ma non crede negli uomini?
Lasciatelo rispondere, cittadini, e non schiamazzate per una parte o per l'altra. C'è qualcuno che non
crede nei cavalli, ma in realtà ippiche? C'è qualcuno che non crede nei flautisti, ma in realtà
flautistiche? Non c'è, mio carissimo amico. E se tu non vuoi rispondermi, lo dico io, a te e tutti gli altri
presenti. Ma rispondi almeno a questo: [27c] c'è qualcuno che crede che ci siano realtà pertinenti a
divinità demoniche, ma non crede nelle divinità demoniche? -
- Non c'è. -
- Com'è utile che ti sia dato pena di rispondere, costretto dai giudici! Dunque tu dici che io credo in
realtà pertinenti le divinità demoniche - nuove o vecchie che siano - e insegno in conformità a questa
convinzione: ma allora, in ogni caso, io credo davvero, secondo il tuo discorso, in realtà pertinenti le
divinità demoniche. Del resto, lo hai anche giurato solennemente nella tua denuncia. Ma se credo in
realtà demoniche, devo certo credere necessariamente anche in divinità demoniche, non è vero? E'
così: suppongo che tu sia d'accordo, dal momento che non rispondi. [27d] E queste divinità demoniche (daimones) non li riteniamo forse dei o figli di dei? Sì o no? -
- Certamente. -
- Allora se io credo in delle divinità demoniche, come tu dici, e se queste sono dei, può darsi, come
sostengo io, che tu ci stia prendendo in giro con un indovinello, dicendo prima che non credo negli dei,
poi ancora che ci credo, e poi che credo, in effetti, in demoni. Ma se questi demoni (daimones) sono,
come si dice, una specie di figli bastardi di dei e di ninfe o di altre creature, chi potrebbe pensare che ci
siano figli di dei, ma non dei? [27e] Sarebbe tanto bizzarro quanto credere che ci siano figli di cavalli e
di asini, cioè muli, senza però credere che esistano cavalli ed asini. No, Meleto, non può essere che tu
abbia scritto questa accusa altrimenti che per metterci alla prova, o perché non sapevi di quale vera
colpa accusarmi. Ma non c'è modo, così, di persuadere qualcuno, anche di modesto intelletto, che alla
stessa persona sia possibile credere che ci siano cose demoniche e divine [28a] ma non demoni, dei ed
eroi.
XVI. E davvero, cittadini ateniesi, mi sembra che per provare che non sono colpevole secondo
l'accusa di Meleto non occorra una grande autodifesa, ma questa basti; e tenete ben presente che è
vero anche quanto dicevo prima, e cioè che è sorto nei miei confronti un odio grande e diffuso. Ed è
questo che causa la mia condanna: non Meleto, né Anito, ma il pregiudizio e la gelosia dei più. [28b]
Questo ha condannato molti altri uomini buoni, e altri ancora - credo - ne condannerà; non c'è da
temere che io sia l'ultimo. Ma forse qualcuno potrebbe dire:
- Socrate, non ti vergogni di esserti dedicato ad una attività per la quale sei ora esposto al rischio di
morire? -
Io avrei ragione di ribattere:
- Ragazzo, non ragioni correttamente, se pensi che un uomo, anche di valore modesto, debba tener
conto di essere vivo o morto, e non debba invece considerare, quando agisce, solo questo: se agisce
giustamente o ingiustamente e se le sue opere sono da uomo buono o cattivo. [28c] Infatti, a tuo dire,
sarebbero dei mediocri tutti i semidei che hanno concluso la loro vita a Troia, fra cui il figlio di Tetide,
che preferì affrontare il pericolo piuttosto che la vergogna. Tanto che, quando la madre, che era una
dea, disse a lui, ansioso di uccidere Ettore, qualcosa - credo - di simile a questo:
Figlio, se vendicherai l'uccisione di Patroclo, il compagno, e ucciderai Ettore, tu stesso morirai
perché subito dopo è per te preparato il suo destino funesto.
[cfr. Hom. Il. 18.96.]
egli, sentite queste parole, si curò poco della morte e del pericolo, [28d] perché temeva molto più una
vita da vile, senza vendicare l'amico, e rispose:
Che possa morire immediatamente, dopo aver fatto pagare al colpevole il fio,
per non rimanere ridicolo qui, presso le navi ricurve, peso alla terra.
[cfr. Hom. Il. 18.98-104.]
Pensi che lui si sia preoccupato della morte e del pericolo?
-XVII. Perché in verità è così, cittadini ateniesi: dove uno si sia schierato da sé, perché lo riteneva il
posto migliore, o dove sia stato messo da un comandante, lì si deve - secondo me - avere il coraggio di
restare, senza curarsi né della morte né di altro di fronte alla vergogna. Cittadini [28e] ateniesi, quando
i comandanti che voi sceglieste per me mi schierarono in battaglia a Potidea, ad Anfipoli e a Delio,
rimasi dove mi avevano disposto, come qualsiasi altro, e rischiavo di morire. Farei dunque una azione
terribile se, quando invece a schierarmi è il dio, come io ho supposto e inteso, con l'ordine di vivere
facendo filosofia ed esaminando me stesso e gli altri, avessi paura della morte [29a] o di qualunque
altra cosa e abbandonassi il mio posto. Sarebbe una cosa terribile, e mi si potrebbe certo portare in
tribunale giustamente, con l'accusa di non credere che gli dei esistano, perché disubbidisco all'oracolo,
ho paura della morte e penso di essere sapiente senza esserlo. Infatti, cittadini, aver paura della morte
non è nient'altro che sembrare sapiente senza esserlo, cioè credere di sapere quello che non si sa.
Perché nessuno sa se per l'uomo la morte non sia per caso il più grande dei beni, eppure la temono
come se sapessero bene [29b] che è il più grande dei mali. E credere di sapere quello che non si sa non
è veramente la più vergognosa forma di ignoranza? Io, cittadini, sono diverso dalla maggior parte degli
uomini forse anche per questo, e se dovessi dichiarare che sono più sapiente di qualcuno in qualcosa,
direi che lo sono perché, non sapendo abbastanza di quanto avviene nell'Ade, non penso neppure di
conoscerlo. Però una cosa la so: agire ingiustamente e disubbidire a chi è migliore di noi, uomo o dio
che sia, è cattivo e vergognoso. Di fronte a mali che so essere tali io non mi spaventerò né fuggirò mai
quello che non so se sia, per caso, bene. Perciò, [29c] anche se mi assolvete, senza credere ad Anito,
che affermava che o non dovevo assolutamente essere fatto comparire in tribunale, o, una volta
convenuto, non si poteva fare a meno di condannarmi a morte, perché se verrò lasciato andare i vostri
figli metteranno in pratica quello che Socrate insegna e saranno tutti totalmente corrotti - se voi per
questo mi diceste:
- Socrate, per questa volta non daremo retta ad Anito, e ti assolviamo, ma a questa condizione: che tu
non sprechi più tempo in questa ricerca e non faccia più filosofia; se [29d] verrai colto a farla, morirai.
-
Se davvero voi mi assolveste alla condizione che ho detto, vi risponderei:
- Cittadini ateniesi, io vi amo e vi rispetto, ma ubbidirò al dio piuttosto che a voi, e finché avrò respiro
e sarò in grado di farlo, non smetterò di fare filosofia, di consigliarvi e di insegnare a chiunque incontri
di voi, dicendo, come sono solito: "O ottimo uomo, tu che sei Ateniese, della città più grande e famosa
per sapienza e forza, non ti vergogni di preoccuparti dei soldi, per averne più che puoi, [29e] della
reputazione e dell'onore, senza però curarti e darti pensiero della saggezza, della verità e dell'anima,
perché sia la migliore possibile?" E se qualcuno di voi mi contesta, affermando di prendersene cura,
non lo lascerò subito andare né me ne andrò io, ma lo interrogherò, lo esaminerò e lo confuterò, e se
mi sembrerà che non abbia virtù [30a] se non a parole, lo rimprovererò perché disprezza quello che
vale di più e apprezza quello che vale di meno. Farò questo a chiunque incontri, giovane e vecchio,
forestiero e cittadino, ma soprattutto ai cittadini, in quanto mi siete più vicini per nascita. Perché
questo è quello che mi ordina il dio - tenetelo presente - e io penso che alla città finora non sia
accaduto nessun bene più grande del mio servizio al dio. Infatti io me ne vado in giro senza fare altro
se non persuadervi, giovani e vecchi, a non preoccuparvi né del corpo [30b] né dei soldi più che
dell'anima, perché sia quanto migliore possibile, dicendo: "L'eccellenza (arete) non deriva dalla
ricchezza, ma dalla virtù (arete) provengono la ricchezza e tutti gli altri beni per gli uomini, sia sia
come privati sia in quanto comunità." E se dicendo questo corrompo i giovani, consideratelo pure
dannoso: ma se qualcuno afferma che dico cose diverse da queste, dice il falso. E perciò dichiarerò:
"Cittadini ateniesi, siate o no convinti da Anito e mi assolviate o no, [30c] non mi comporterò
altrimenti, neppure se dovessi più volte morire." - XVIII. Non schiamazzate, cittadini ateniesi, ma continuate a comportarvi come vi ho chiesto,
ascoltandomi senza far chiasso su quello che dico, anche perché - credo - ne trarrete beneficio. Infatti
sto per aggiungere qualcos'altro che forse vi farà schiamazzare; ma statevene zitti. Tenete presente che
se mi condannate a morte, perché sono come dico di essere, non danneggerete me più di voi stessi: a
me, infatti. niente mi può danneggiare, né Meleto né Anito - non ne sarebbero neppure capaci - in
quanto, credo, [30d] non è permesso che un uomo migliore sia danneggiato da uno peggiore. Forse mi
può uccidere o esiliare o disonorare; ma mentre egli e qualcun altro possono credere che questi siano
grandi mali, io non lo credo, e considero invece un male molto maggiore fare ciò che sta facendo ora,
cioè tentare di condannare ingiustamente a morte un uomo. Perciò, cittadini ateniesi, io non parlo per
difendere me stesso, come qualcuno potrebbe supporre, ma per voi, perché non abbiate ad errare su
[30e] quello che il dio vi dato, votando contro di me. Infatti se mi condannate, non troverete facilmente
un altro che - sia pur detto in modo ridicolo - venga assegnato dal dio alla città come a un cavallo
grande e nobile, ma pigro a causa della sua grandezza e bisognoso di essere svegliato da un qualche
tafano. Perché mi sembra che il dio mi abbia posto sulla città con questa funzione: non smettere di
stare appresso a voi - a ciascuno di voi - tutto il giorno e dovunque per stimolarvi, convincervi e
rimproverarvi.[31a] Un altro tipo così, cittadini, non vi rinascerà facilmente: risparmiatemi, se mi date
retta. Ma può darsi che voi, che vi irritate in fretta e mi picchiate, come gente che casca dal sonno
buttata giù dal letto, diate retta ad Anito e mi condanniate facilmente a morte, per continuare a
dormire, a meno che il dio, preoccupato per voi, non vi rimandi qualcun altro. E che io sia qualcosa di
dato dal dio [31b] potreste comprenderlo da questo: non è umano che io abbia trascurato tutto quel che
mi riguardava, abbia continuato a non curarmi degli affari di famiglia per tutti questi anni e invece
abbia sempre fatto i vostri, rivolgendomi a ciascuno privatamente, come un padre o un fratello
maggiore, per convincervi a preoccuparvi della virtù. Se io ne avessi tratto vantaggio e avessi dato
questi consigli a pagamento, la cosa avrebbe avuto un qualche senso, ma ora vedete voi stessi che i
miei accusatori, pur accusandomi così spudoratamente in tutto il resto, in questo caso non sono stati
così sfrontati da [31c] presentare un testimone ad affermare che io mi sia mai fatto pagare o l'abbia
richiesto. Perché credo che basti produrre la povertà come testimone a mio favore.
XIX. Vi potrà forse sembrare strano che io me ne vada in giro e mi dia da fare (polypragmoneo) a
consigliarvi in privato, ma non abbia il coraggio di alzarmi a parlare pubblicamente al popolo in
assemblea per dar consiglio alla città. La causa di questo, come mi avete spesso sentito ripetere, è che
mi accade qualcosa di divino [31d] e di demonico, di cui appunto ha scritto anche Meleto nella sua
accusa, facendoci sopra della satira. E' qualcosa che mi è cominciato da bambino, come una specie di
voce, la quale, ogni volta che si produce, mi trattiene sempre da quello che sto per fare, senza però mai
spingermi in avanti. Questo è ciò che mi impedisce di fare politica, e mi sembra una opposizione
sacrosanta. Perché - tenetelo ben presente, cittadini ateniesi - se in passato mi fossi nesso ad occuparmi
di affari politici, sarei morto da un pezzo e non sarei stato utile né a voi [31e] né a me stesso. E non
prendetevela con me, che dico la verità: non c'è nessuno che si possa salvare, se si oppone
autenticamente a voi o a un'altra maggioranza, impedendo che in città avvengano molte ingiustizie e
illegittimità, ed [32a] è anzi necessario che chi combatte per il giusto, se deve sopravvivere anche solo
per un po', rimanga un privato e non si dedichi alla vita pubblica.
XX. Ma di questo vi fornirò abbondanti prove: non discorsi, ma qualcosa di cui voi avete rispetto,
fatti. Ascoltate che cosa mi è successo, perché possiate rendervi conto che non cederei a nessuno per
paura della morte, in violazione del giusto, ma morirei piuttosto che arrendermi. Vi dirò cose
grossolane e avvocatesche, ma vere. Infatti, cittadini ateniesi, io [32b] non ho mai esercitato nessuna
carica in città se non come membro della Bulé; e capitò che la mia tribù Antiochide avesse la pritania
quando decideste di giudicare tutti insieme, illegittimamente (paranomos), come sembrò in un
secondo momento a tutti voi, i dieci strateghi che non avevano raccolto [i naufraghi] della battaglia
navale [delle Arginuse]. Ma in quel momento io solo fra i pritani mi opposi a voi, per non fare niente
contro la legge, e votai contro. E mentre c'erano oratori pronti a denunciarmi e a trascinarmi in giudizio e voi gridavate e li incitavate, [32c] io pensavo che era per me doveroso rischiare il tutto per
tutto con la legge e la giustizia, piuttosto che stare con voi deliberando cose ingiuste, per paura della
prigione o della morte. E questo fu quando la città aveva ancora una costituzione democratica. Ma
quando si affermò l'oligarchia, i trenta mi rifecero chiamare alla Tholos 1 con altri quattro, e mi
ingiunsero di portar via da Salamina Leonte di Salamina per metterlo a morte. Essi davano molti ordini
del genere a numerosi altri, perché volevano contaminare con le loro colpe più persone possibili. E
anche allora, [32d] tuttavia, provai non a parole ma con i fatti che della morte non m'importa - se non
è detto troppo rusticamente - proprio nulla, mentre non agire in modo ingiusto ed empio mi sta del
tutto a cuore. Perciò quel governo, pur essendo così potente, non mi turbò tanto da indurmi a fare
qualcosa di ingiusto, e, uscito dalla Tholos, mentre gli altri quattro erano andati a Salamina a prendere
Leonte, io mi ero allontanato e me ne ero andato a casa. E forse per questo sarei stato messo a morte se
quel governo non fosse stato velocemente rovesciato. [32e] Anche di questo avrete numerosi
testimoni.
XXI. Credete dunque che sarei sopravvissuto per tanti anni se mi fossi occupato di affari pubblici e,
facendolo in modo degno di un uomo buono, avessi sostenuto quello che è giusto e lo avessi
considerato - come si deve - della massima importanza? Assolutamente no, cittadini ateniesi; né [33a]
ci sarebbe riuscito qualcun altro. Ma - sarà chiaro - in tutta la mia vita, se per avventura mi sono
occupato di questioni pubbliche, io sono stato così, e così sono stato anche in privato, senza mai cedere
a nessuno - né a quelli che i miei calunniatori dicono miei discepoli né ad altri - contro quello che è
giusto. E non sono stato maestro di nessuno: se c'è qualcuno - giovane o vecchio - che desidera
ascoltarmi quando parlo e faccio ciò mi è proprio, io non me ne sono mai risentito. Discuto senza
farmi pagare [33b] e non evito di farlo se non prendo soldi, ma mi offro ugualmente a ricchi e poveri
per domandare e chiunque ne abbia voglia può ascoltare quello che dico quando rispondo. Di questi,
sia che qualcuno diventi onesto, sia che non lo diventi, io giustamente non posso essere ritenuto
responsabile, perché non ho mai promesso istruzione a nessuno, né ho mai insegnato. E se qualcuno
dice di aver imparato qualcosa da me o di aver ascoltato da me in privato cose non udite anche da tutti
gli altri, non dice la verità, siatene certi.
XXII. Ma perché allora ad alcuni piace [33c] passare tanto tempo con me? L'avete sentito, cittadini,
ateniesi, vi ho detto tutta la verità: a loro piace ascoltarmi quando esamino quelli che si credono
sapienti senza esserlo. E in effetti non è spiacevole. Ma a me di compiere questo, ripeto, è stato
ordinato dal dio, con oracoli, con sogni e in tutti i modi in cui un qualche destino (moira) divino
prescrive all'uomo il da farsi. Questo, cittadini ateniesi, è vero e anche facilmente dimostrabile. Infatti,
se davvero [33d] corrompessi dei giovani ed altri ne avessi corrotti in passato, certo alcuni di questi,
invecchiando, si sarebbero dovuti render conto che davo loro cattivi consigli quando erano giovani e
ora dovrebbero essere qui ad accusarmi e a chiedere soddisfazione; e se non avessero voluto farlo
personalmente, qualche loro familiare - padri, fratelli e altri parenti - ora se ne dovrebbe ricordare per
chiedere soddisfazione, se veramente i congiunti avessero patito da me del male. In ogni caso, ce ne
sono molti qui presenti - io li vedo -: ecco per primo Critone, mio coetaneo [33e] e del mio stesso
demo, padre di Critobulo - eccolo qui -; poi Lisania di Sfetto, padre di Eschine - anche lui qui -; ed
ecco ancora Antifonte di Cefisia, padre di Epigene, e quest'altri i cui fratelli mi hanno frequentato,
Nicostrato figlio di Teozotide, fratello di Teodoto -e Teodoto è morto e dunque non può essere qui per
sua preghiera -, e Paralio figlio di Demodoco, di cui era fratello Teage; e c'è [34a] Adimanto figlio di
Aristone, di cui è fratello Platone - eccolo -, e Aiantodoro, di cui è fratello Apollodoro - eccolo qui -. E
di molti altri avrei ancora da dire: Meleto avrebbe dovuto innanzi tutto presentare come testimone
qualcuno di questi, nel suo discorso; se gli è passato di mente allora, lo faccia ora - gli cedo il posto - e
se ha qualcosa di simile, lo dica. Ma, cittadini, troverete che è tutto il contrario, che tutti sono pronti a
venire in aiuto a me, che li corrompo e faccio del male ai loro familiari, come dicono Meleto e [34b]
Anito. In effetti quelli che sono già corrotti potrebbero aver motivo di aiutarmi, ma quelli che non lo
sono, gli uomini già anziani, i loro parenti, quale altro motivo potrebbero avere se non ciò che è retto e giusto, perché sanno bene che Meleto mente e io dico la verità?
XXIII. Bene, cittadini; più o meno questo, e altro di simile, è quanto posso dire in mia difesa. Forse
qualcuno [34c] di voi potrà irritarsi al ricordo di se stesso, se, sostenendo un processo anche più
modesto del mio, ha pregato e supplicato i giudici con molte lacrime e ha portato in tribunale i figli e
numerosi altri parenti ed amici per farli commuovere di più, mentre io, anche se mi credo di fronte al
pericolo estremo, non farò nulla di simile. Forse qualcuno, riflettendoci su, potrebbe indisporsi nei
miei confronti e, adirato, potrebbe votare [34d] con ira. Se qualcuno di voi è così - non penso che ci
sia, ma se ci fosse - mi sembrerebbe appropriato dirgli: - Amico mio, anch'io ho qualche familiare;
proprio come dice Omero, non sono nato "né da quercia né da pietra" ma da esseri umani e così ho
anch'io dei familiari e dei figli, tre, cittadini ateniesi, uno che è già un ragazzo, e due bambini, ma,
nondimeno, non porterò quassù nessuno di loro e non vi pregherò di votare per la mia assoluzione. - E
perché non lo voglio fare? Non per arroganza, cittadini [34e] ateniesi, né perché vi disprezzo; se io sia
o no coraggioso di fronte alla morte è un altro discorso, e tuttavia non mi sembra bello, per la fama
mia e vostra e della città intera, comportarmi così alla mia età e con la reputazione che ho, vera o falsa
che sia, poiché in ogni caso si crede [35a] che Socrate sia diverso dalla maggioranza degli esseri
umani. E sarebbe davvero una vergogna se proprio quelli che fra voi si distinguono per sapienza o
coraggio o qualsiasi altra virtù si comportassero in questa maniera. Ne ho vista molta di gente così, che
se si trova in giudizio, pur avendo una qualche reputazione, fa scene straordinarie, come se pensasse di
dover subire qualcosa di terribile se muore, quasi dovesse essere immortale se voi non la condannaste
a morte. A me sembra che questa gente copra di vergogna la città: così - e lo potrebbe supporre anche
un forestiero - [35b] perfino chi fra gli Ateniesi si distingue per virtù e che essi stessi prescelgono per
le magistrature e le altre cariche onorifiche non è per nulla diverso dalle donne. Perciò, cittadini
ateniesi, non bisogna vi comportiate così voi, se avete una certa qual reputazione, né permetterlo, se
siamo noi a farlo, ma vi conviene mostrarvi molto più propensi a votare sfavorevolmente nei confronti
di chi fa queste scene strappalacrime e rende ridicola la città, che di chi rimane tranquillo.
XXIV. Ma a prescindere dalla reputazione, cittadini, non mi sembra giusto [35c] supplicare il giudice
e farsi assolvere con le preghiere, invece di spiegare e convincere. Il giudice non è qui per concedere
quello è giusto come un favore, ma per giudicarlo; e non ha giurato di far favori a chi gli pare, ma di
giudicare secondo le leggi e le consuetudini (kata tous nomous). E perciò non bisogna né che noi
abituiamo voi a non osservare il giuramento, né che vi ci abituiate voi, perché nessuno, così, si
comporterebbe piamente. Non aspettatevi dunque, cittadini ateniesi, che io faccia davanti a voi cose
che non ritengo né belle, né [35d] giuste, né pie, proprio io - per Zeus - che sono accusato di empietà
dal qui presente Meleto. E' chiaro che se convincessi e forzassi con le suppliche voi, che avete fatto un
giuramento, vi insegnerei a pensare che non ci sono dei e, appunto con questa autodifesa, accuserei me
stesso di non credere negli dei. Ma è tutt'altro che così: io ci credo, cittadini ateniesi, come nessuno
dei miei accusatori, e permetto a voi e al dio di giudicarmi nel modo migliore per me e per voi.
(Apologia di Socrate, parte I)