Di Redazione su Sabato, 10 Novembre 2018
Categoria: Mi chiamo Alessandro Gordiani e faccio l'avvocato (Michele Navarra) - Diritto e Letteratura

Magari me se squaja er cervello e divento scemo der tutto

 Quel sabato di metà luglio il caldo a Fortedoria era davvero op­primente.

Sembrava che l'asfalto della strada si appiccicasse alla suola delle scarpe. Niente vento, nemmeno sulla spiaggia. Anche l'ac­qua del mare, solitamente abbastanza fredda, sembrava sprigio­nare calore.

Alto e scuro di carnagione, occhi e capelli neri, portati molto corti, quasi alla militare, Alessandro Gordiani, come al solito la­mentandosi, si apprestava a innaffiare le piante del piccolo orto che aveva dietro casa.

Magari me se squaja er cervello e divento scemo der tutto, pensò in romanesco con una punta di preoccupazione, mista però a una strana speranza. La prospettiva di diventare un idiota totale, in­fatti, non era per lui da scartare a priori, senza un'adeguata ri­flessione. Poteva essere un'ipotesi da riconsiderare. Decise per il momento di accantonare l'argomento: l'avrebbe approfondito più tardi, nel pomeriggio.

Dopotutto, era serenamente consapevole di essere un pazzo. Strano tipo di pazzo, certo. Un pazzo atipico.

Come ogni mattina, si era svegliato poco prima delle otto. Metteva sempre la sveglia alle otto, sebbene non ne avesse quasi mai bisogno. Infatti, per qualche misteriosa ragione, fin da pic­colo si era sempre svegliato da solo, ancor prima di sentire il fastidioso pigolio delle varie suonerie, che si erano avvicendate nel corso degli anni.

Del resto, non era mai riuscito a dormire bene. Forse il caldo, forse il freddo, forse il tiepido, chi lo sa. E poi si alzava almeno due volte a notte per bere: una vera e propria tortura.

 Dentro di sé, era quasi sicuro che fosse l'ansia la causa princi­pale dei suoi sonni disturbati.

E in effetti, era un bel po' ansioso. Era proprio per questo motivo che l'avvocato Alessandro Gordiani aveva abbandonato la professione legale.

Appena trentasettenne, si era trasferito da Roma a Fortedo­ria, un piccolo paese sulla costa sassarese. Niente più tribunali, niente più udienze, niente più attese, niente più giudici, niente più niente. Stop. Chiuso. Finito.

In verità, non era stato solo lo stress a determinare la sua de­cisione. Negli ultimi tempi in cui aveva esercitato, infatti, le cose si erano fatte difficili. Scarseggiavano i clienti. D'altra parte, non aveva mai voluto iscriversi alle liste dei difensori d'ufficio, che considerava più una seccatura, per non dire una gran rottura di scatole, che una fonte proficua per reperire clientela.

Tuttavia, il vero problema era quell'opprimente senso di re­sponsabilità che lo attanagliava prima di ogni processo o comun­que subito dopo il conferimento di un incarico professionale. "Avvocato, sono nelle sue mani!", era una frase che si sentiva spesso ripetere e che lo faceva invariabilmente piombare nell'an­sia. Le aspettative del cliente, la fiducia che una persona riponeva in lui, la paura di commettere un errore, di scegliere una strategia difensiva sbagliata: erano queste le ragioni che gli avevano reso la sua professione insopportabile.

 Più i processi andavano bene, più cause vinceva, più le aspet­tative aumentavano. Non tanto quelle dei nuovi clienti, spesso all'oscuro delle sue vittorie o sconfitte professionali, quanto le sue nei confronti di se stesso. Era ipercritico; non era disposto a tollerare errori, né quelli altrui, né tantomeno i propri.

E pensare che avrebbe voluto fare il medico. Era stato a lun­go indeciso, prima di scegliere giurisprudenza, se iscriversi alla facoltà di medicina. Una follia… Sarebbe en­trato in fibrillazione dopo ogni diagnosi compiuta, per paura di aver commesso un errore o di aver trascurato qualche sintomo evidente. No, quel tipo di professione non faceva proprio per lui.

Alla fine aveva deciso di fare l'avvocato.

A pensarci bene, il pianto liberatorio o il sollievo di un cliente dopo un'assoluzione erano sensazioni uniche da provare. Ci si poteva sentire veramente importanti, orgogliosi del lavoro svol­to, felici per aver aiutato qualcuno. Ma la delusione per una scon­fitta o la fatica, l'angoscia e le preoccupazioni che costellavano il cammino verso una vittoria, gli intossicavano la vita e la gioia che provava dopo un processo andato bene, seppure intensa, spesso non bastava a compensare la sofferenza per le difficoltà e gli ostacoli che era stato necessario superare per raggiungere quel risultato.

Anche la riduzione della clientela, spesso non legata alla bra­vura, ma a dinamiche insondabili, lo faceva stare in ansia; una paura, quasi irrazionale, di non riuscire a tirare avanti.

Come ripeteva spesso, per gli avvocati non esiste il ventisette del mese, l'agognato giorno di paga. Il ventisette può arrivare in qualsiasi momento oppure mai. E questo gli creava ansia. Una maledettissima ansia.

Non gliene importava poi molto che quasi tutti i giovani av­vocati, e anche tanti meno giovani, si trovassero in una situazio­ne identica alla sua, se non peggiore. Mal comune ma nessun gaudio.

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