Di Paola Mastrantonio su Martedì, 11 Ottobre 2022
Categoria: Giurisprudenza Cassazione Civile

Non viola la privacy il lavoratore che registra di nascosto i colleghi per esigenze difensive.

In via di principio, la registrazione di conversazioni all'insaputa di una persona, nella sua casa, nel suo ufficio, nella sua macchina ed in tutti quei luoghi assimilabili alla privata dimora, non solo è un malcostume che lede il diritto alla riservatezza, ma è un comportamento in cui si rinvengono gli estremi del reato di interferenza illecita nella vita privata e che, dunque, espone il suo autore a responsabilità penale.

Anche il diritto alla riservatezza, come ogni altro diritto, non si sottrae però alla pratica del giudizio di bilanciamento qualora entri in conflitto con interessi di pari rango, come ad esempio, il diritto di difesa.

La Cassazione ha in più occasioni affermato il principio secondo cui l'interesse alla riservatezza dei dati personali deve cedere, a fronte della tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, e dall'ordinamento configurati come prevalenti nel necessario bilanciamento operato, fra i quali l'interesse, ove autentico e non surrettizio, all'esercizio del diritto di difesa in giudizio.

Nel caso prospettato nella sentenza che ci si accinge ad illustrare, gli ermellini hanno affrontato la problematica relativa alla rilevanza disciplinare del comportamento di un lavatore che aveva effettuato delle registrazioni all'insaputa dei colleghi al fine di precostituirsi un mezzo di prova.

La massima.

Deve ritenersi legittima, e non sanzionabile con il licenziamento disciplinare, la condotta del lavoratore che, all'insaputa dei colleghi, abbia registrato alcune conversazioni per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda e per precostituirsi un mezzo di prova. Tale condotta, infatti, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, risponde alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto; del resto, lo stesso art. 24, d.lgs. 196 del 2003 permette di prescindere dal consenso dell'interessato quando il trattamento dei dati sia necessario per far valere o difendere un diritto ed a condizione che i medesimo dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.

Cass., sent. n. 28938/2022.

Il fatto.

La responsabile di un ufficio fornitori ricorreva al giudice del lavoro per sentir dichiarare l'illegittimità del licenziamento intimatogli, poiché costituente l'ingiusta ed arbitraria reazione del datore di lavoro ad un suo comportamento legittimo e, dunque, avente carattere ritorsivo.

Il tribunale dichiarava illegittimo il licenziamento e condannava la società datoriale alla reintegra nel posto di lavoro ed al pagamento dell'indennità risarcitoria.

La sentenza di primo grado veniva confermata dalla corte territoriale, la quale, mediante ampi rinvii all'ordinanza e alla sentenza emesse nel giudizio di primo grado, rilevava come gli addebiti contestati alla dipendente fossero privi di riscontro e, comunque, relativi a condotte di inefficienza o negligenza, conosciute e tollerate da parte datoriale ed anzi conformi alla prassi aziendale praticata fin da epoca anteriore all'inizio del rapporto di lavoro con la ricorrente, che tali addebiti non avessero carattere di gravità e non giustificassero l'irrogazione della sanzione espulsiva, essendo al più sanzionabili con una misura conservativa, secondo le previsioni del contratto collettivo. Riteneva, inoltre, che il carattere ritorsivo del licenziamento non potesse considerarsi provato in base alle deposizioni testimoniali raccolte né attraverso le "abusive, illegittimamente captate e registrate conversazioni" tra la lavoratrice e altro dipendete, considerate dai giudici di appello non idonee a costituire fonte di prova.

Contro tale sentenza ricorreva in via principale il datore di lavoro ed in via incidentale la lavoratrice.

La decisione della Cassazione.

Secondo la Corte, la sentenza impugnata aveva errato nel ritenere sic et simpliciter che le conversazioni captate dalla ricorrente fossero di per sé "abusive ed illegittimamente registrate", senza in alcun modo indagare sulla ricorrenza dei requisiti a cui la Corte stessa subordina la legittimità a fini di prova delle registrazioni di conversazioni tra presenti, senza farsi carico del contemperamento dei concorrenti diritti fondamentali e senza fornire alcuna spiegazione della soluzione adottata. Adempimenti, quelli appena elencati, che, secondo gli ermellini, sono tanto più necessari in relazione alle difficoltà di assolvimento dell'onere probatorio gravante sul lavoratore che denunci la ritorsività del licenziamento intimatogli.

Infatti, ha ricordato la Cassazione, la registrazione su nastro magnetico di una conversazione può costituire fonte di prova, ex art. 2712 c.c., se colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta, né che abbia avuto il tenore risultante dal nastro, e sempre che almeno uno dei soggetti, tra cui la conversazione si svolge, sia parte in causa; il disconoscimento, da effettuare nel rispetto delle preclusioni processuali degli artt. 167 e 183 c.p.c., deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito e concretizzarsi nell'allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta.

Nel valutare, poi, se la condotta di registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi presenti, all'insaputa dei conversanti, possa integrare una grave violazione del diritto alla riservatezza, che giustifica il licenziamento, occorre anzitutto rammentare che l'art. 24, d.lgs. 196 del 2003 permette di prescindere dal consenso dell'interessato quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione venga eseguita, sia necessario per far valere o difendere un diritto, a condizione che essi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento, sicché, l'utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.

Peraltro - hanno concluso gli ermellini -, il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso.

Non a caso, nel codice di procedura penale, il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento.

Da tali premesse la Suprema corte ha tratto la conseguenza che la condotta di registrazione d'una conversazione tra presenti, ove rispondente alle necessità conseguenti al legittimo esercizio del diritto di difesa, e quindi essendo coperta dall'efficacia scriminante dell'art. 51 c.p., di portata generale nell'ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico, non può di per sé integrare illecito disciplinare, esigendosi un attento ed equilibrato bilanciamento tra la tutela di due diritti fondamentali, quali la garanzia della libertà personale, sotto il profilo della sfera privata e della riservatezza delle comunicazioni, da una parte e del diritto alla difesa, dall'altra.

La Suprema Corte ha pertanto cassato la sentenza impugnata con rinvio alla medesima corte d'appello in diversa composizione che dovrà provvedere ad un nuovo esame della fattispecie alla luce dei principi di diritto da essa enunciati.

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