Mino Martinazzoli, nato a Orzinuovi (Brescia) nel 1931, morto nel settembre 2011, avvocato, uomo politico e scrittore, parlamentare della Democrazia Cristiana dal 1972 per molte legislature, fu l'ultimo segretario del Partito Popolare Italiano. Fu ministro della Giustizia, Sindaco di Brescia, autore dei saggi Controcorrente d,c., Arel-Il Mulino, Bologna 1979; Aldo Moro e il problema della pena (introduzione a Tritto, Vassalli, Bettiol), Il Mulino, Bologna 1982; Pretesti per una requisitoria manzoniana, Grafo Edizioni, Brescia 1985; Il limite della politica, Morcelliana, Brescia 1985.
da: Pretesti per una requisitoria manzoniana, Grafo Edizioni, Brescia 1985.
Si chiamava Guglielmo Piazza lo sventurato che verso le quattro e mezzo del mattino del 21 giugno 1830 incappò, per una combinazione del suo destino, nello sguardo di Caterina Rosa. Questo Piazza era un "commissario della Sanità", denominazione pomposa per dire una manovalanza di quasi-becchini, alacremente cresciuta nell' imperversare della peste.
Un "monatto", di quelli che appaiono in alcune desolate pagine dei Promessi Sposi.
Se la verità fantastica della storia secondo Borges può esercitare qualche suggestione, dovremo immaginare che Piazza sia tra quelli che han visto scendere "dalla soglia d'uno di quegli usci" la madre di Cecilia. D'altro canto, quando si tenga conto di come le guerre, la peste e le carestie avessero ridotto la martoriata città di Milano e di quale fosse - in queste condizioni- la vita dei suoi abitanti, non può meravigliare troppo che Caterina Rosa, stando alla finestra, vedesse esattamente ciò che il suo inconscio le suggeriva di vedere. L'epidemia che, per l'ignoranza delle cause, non poteva essere efficacemente contrastata, evocava, subdolamente, rimedi mostruosi. Se, da un lato, la dimensione del flagello suscitava l'idea di uno schiacciante no divino, inducendo la Chiesa ed il suo popolo a suppliche corali o processioni esse stesse veicoli di contagio non era consentito, al potere politico di apparire totalmente inerme di fronte alla incapace di dominare e di contrastare tumulti e disordini, inevitabili questo disastro.
Non tutti sono rassegnati, come don Ferrante, a morire maledicendo stelle per non aver risolto la cabala delle filosofie. Occorrono dei colpevoli e, poiché la "scienza ufficiale"- a sua volta ansiosa di rivincite - asseconda le opinioni più inverosimili non meno che le ragioni più torbide, non si supporranno bacilli ma si fabbricheranno, crimini e criminali. In questo modo, oltretutto si chiude il cerchio tra paure superstiziose e calcoli di potere e si salda l'insidia del diavolo alla congiura politica. Nemici invisibili camminano per la città spargendo unguenti venefici. Sono appunto gli "umori", i padroni della peste. Bisogna vigilare. Ed è vigile Caterina Rosa. È vigile Ottavia Bono, la vicina subito evocata a verifica e conferma. Quest'uomo con una cappa nera e il cappello sugli occhi "si fece appresso alla muraglia delle case" strisciandovi di tanto in tanto, la mano. "Allora" - soggiunge Caterina Rosa - mi Viene in mente se non sia per caso uno di quelli che, nei giorni scorsi, andavano ungendo le muraglie". Si, sarà uno di quelli, poiché all'opinante Caterina seguiranno inquisitori operosamente inclini a trasformare le ipotesi in certezze ansiosi di mettere in moto la macchina delle macellerie istituzionali.
Guglielmo Piazza, ignaro dell'accusa che gli si fa ma che non viene pronunciata, esordisce secondo una regola sedimentata nell'animo di chi non ha ragioni per confidare nel diritto dei potenti. Nega tutto anche le circostanze immacolate. E poiché si tratta di risposte "inverosimili" offre ai capziosi inquirenti l'opportunità di elargirgli un primo trattamento di tortura. Fa niente se - come annota Manzoni – l'inverosimiglianza avrebbe dovuto riguardare, per dare ingresso alla tortura, fatti rilevanti dal punto di vista accusatorio un elegante questione giuridica, ma, intanto, le bilance della giustizia attendono il loro tributo.Neanche dopo aver sopportato per due volte la tortura, Guglielmo Piazza risulta disponibile a confessare quello che non sa. Ed è a questo unto che entra in scena la lusinga, la demiurgica della promessa impunità. Non avrà, dunque, castigo il Piazza se vorrà, finalmente, dire la verità. Una verità che, nascostagli in quanto accusa, gli viene in questo modo indirettamente suggerita perché abbia un'idea delle menzogne che esigono. Non e che a questo imputato possa essere ascritto un eccesso di fantasia. No l'ha stimolata la tortura, non la sollecita granché quest'altra tattica degli inquisitori, se e vero che gli riesce soltanto di pronunciare il nome di Alessandro Mora - barbiere e medicastro - da cui aveva acquista qualche giorno prima, un unguento presuntamente utile contro il contagio, che non era una stranezza da parte di un uomo quotidianamente a contatto con i cadaveri degli appestati. Mora gli ha dato la sostanza pestifera, Mora gli ha chiesto di ungere i muri. Anche qui, nota puntigliosamente Manzoni, gli inquisitori - e sopra di loro il Vigilante Senato milanese - hanno cinicamente distorto la regola. Infatti, per promettere l'impunità al Piazza, si sono valsi di una disposizione del governatore Spinola, impartita per un caso specifico e per un tempo limitato; non applicabile, dunque, a situazioni diverse.
Ma non c'era timore che l'inganno potesse rivelarsi, dal momento che lo Spinola, grande generale particolarmente esperto in assedi, aveva altro per la testa che queste sciocchezze procedurali. La miserabile bottega del Mora viene messa a soqquadro da una concitata perquisizione, mentre il barbiere - anche lui fuorviato da una scarsa fantasia intorno alle risorse dell`allucinazione inquisitoria - si fa sorprendere mentre tenta di occultare l'innocua ricetta di uno dei suoi intrugli. Il fatto e che il Mora sapeva di non essere in regola per questa clandestina attività di speziale. Quello che non sapeva era che il destino delle istituzioni milanesi aveva deciso di dipendere da lui. Replicata al Piazza la tortura per "purgarlo" delle precedenti reticenze e rendere così ineccepibile l'accusa, poiché il Mora, inevitabilmente, la respinge, si tortura anche lui. Gli si estorce, in qualche modo, una confessione. Ma dopo incredibili confronti, i giudici si ritrovano tra le mani due "verità" difficili da far combaciare.
Potrebbe essere, ancora, il tempo di una rinuncia, almeno di una riflessione. Ma tornare indietro è scomodo. Ammettere uno scacco quando si medita una vittoria, deludere un'attesa così artificiosamente creata intorno all'inchiesta, risulta addirittura impossibile.Il congegno inquisitorio ha una sua inesorabile necessità, gli ingranaggi imprigionano i giudici intanto che dilaniano gli imputati. Si tratterà di superare le contraddizioni aumentando a dismisura la farneticazione dell`inesistente complotto. La strategia del ragno tesse fili sempre più sofisticati, raggiunge altri bersagli, attinge, finalmente, un "intoccabile": don Giovanni Padilla, figlio del comandante del castello. Due anni dopo, l'innocenza del Padilla - personaggio cui non si poteva certamente riservare il trattamento degli altri infelici - venne pienamente riconosciuta (anzi, proprio le carte degli abili e ben pagati difensori saranno le tracce per l'investigazione di Verri e di Manzoni). Ma per il Piazza ed il Mora la giustizia milanese non poteva più attendere. Dichiarati entrambi colpevoli, il primo agosto viene eseguita la sentenza. "Portava che, messi su un carro, fossero condotti al luogo del zio; tanagliati con ferro rovente, per le strade; tagliata loro la davanti alla bottega del Mora, spezzate Fossa con la rota, e in quella trecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in di rifabbricare in quel luogo". Sono passati solo trentanove giorni prima testimonianza del "delitto". Accade raramente, ma si deve riconoscere che, talvolta, la fulminea.
È appena il caso, a questo punto, di chiarire che la vicenda del processo agli untori ha ben altro spessore di quello che può risultare da un; necessariamente semplificata. D'altro canto, sarebbe assurda l'invenzione di una banale come insegna il borgesiano Pierre Menard, ci vogliono una vita intera molta fortuna per rifare una riga intera del Don Chisciotte. È piuttosto invito al Manzoni, e alla sua Storia, la giustificazione di questa, un poca incresciosa, fatica. I fatti del processo, fuori dal riscatto letterario, appartengono all'archivio sterminato dell'atrocità umana, e il loro posto non è neanche dei più rilevanti quando si guardi, sia pure distrattamente, al prima e al dopo. I nomi di queste vittime sarebbero ignoti all'anagrafe della storia se non li avessero evocati la denuncia del Verri e la requisitoria del Manzoni. Quest'ultimo, anzi, li assume ad un ruolo emblematico, così che il processo della Colonna infame diventa una metafora dell'errore giudiziario. Ma venne Franco Cordero con la sua Fabbrica della peste, a riaprire il caso e la polemica. Se uno studioso di rara acutezza e di straordinaria cultura - e così atipico da praticare notevoli percorsi letterari- torna sul luogo di un delitto tanto autorevolmente esplorato, ci si deve attendere un colpo di scena. Che puntualmente si verifica.
In un viaggio scabroso, che potremmo chiamare di speleologia giudiziaria, fino alle radici profonde delle istituzioni penali, Cordero scava nei sottosuoli barocchi e spagnoleschi della Milano del Seicento. Scruta i nessi indicibili tra giustizia e potere, studia contiguità tra superstizioni religiose, civili, istituzionali, misura i limiti del sapere ufficiale e i guasti dell'iperbole inquisitoria. E colloca, al centro di questa ricognizione, il processo della Colonna infame. Se Verri resta ai margini, confinato nella riduttività del suo illuminismo, Manzoni è la scintilla di un cortocircuito. Il processo si riapre, vengono riabilitati i giudici, è travolto il loro incauto inquisitore. Falso, assicura Cordero, che l'iniquità del verdetto possa essere addebitata ai suoi autori.
È vero, al contrario, che essi applicarono scrupolosamente e senza forzature il materiale normativo di cui disponevano. Sembrerebbe la rivincita di Verri, ma non è così, poiché gli è sfuggita - secondo Corsero - la consapevolezza di un intreccio profondo, quasi di una coazione che Muove i giudici secondo l'onnipotenza della realpolitica ed i tropismi della psicologia di massa. Con un simile approccio, il personalismo etico di Manzoni non trova scampo e subisce una furibonda contestazione. "Politicamente codino - ecco l'invettiva di Cordero - la Storia della Colonna Infame, questo pamhlet inattuale assolve norme, istituzioni, costume , cultura (...) scaricando l'accaduto su alcuni peccatori. Non è un discorso sostenibile e nemmeno onesto (...). Mai vista un'occasione più allettante e peggio usata. Quante cose aveva sotto gli occhi, legate l'una all'altra: affari celesti, poli-tica, mode, falso scibile, stile curialesco, tecniche patibolari, preti ficchini in politica e negli affari (...). L'episodio cresce su dense trame culturali, ma lui recide ogni nesso affinché i lettori vedano poche monadi sulla scena nuda". E così esorbitante questa censura, che mette in allarme. Si intuisce un deragliamento quando troppe ragioni conducono al di là di un equilibrio. Prese una per una, queste ragioni possono risultare pertinenti. Pesate tutte insieme danno vertigini. Manzoni non avrebbe guardato al contesto? Ma se I Promessi Sposi ne e l'atlante memorabile e definitivo. I giudici del processo agli untori non sono costretti in solitudine da una premeditata rimozione ma per una residua domanda che non contraddice l'esauriente consapevolezza delle condizioni in cui si trovarono ad agire. Si può discutere ~ come fa Cordero - se l'accusa manzoniana sia 0 meno fondata, ma appare improprio negarne la legittimità. Certo, la logica inquisitoria è fatta per chiudere ogni spazio di crisi degli inquisitori.
Ma è in questi difficili varchi che si insinua la riflessione manzoniana. La sua lettura dei testi e delle glosse, come quella degli atti del processo muove - lo si è detto - da una parzialità dichiarata. Ma è, comunque, una lettura non arbitraria. Le crepe che essa rivela esistono, non sono supposizioni. E si tratta di indizi consistenti. Discutere se si potesse o meno torturare un imputato - secondo le regole della "cosa" e non per un "abuso" - e tutt'altro che irrilevante. E quand'anche si neghi l'abuso, sembra insufficiente concludere che la menzogna estorta non appartiene alla responsabilità dei giudici ma a quella dell'estorsione e dunque della legge che la comanda.
Per quanto il criterio di verosimiglianza possa ingannare, è tuttavia uno strumento di cui non conviene disfarsi. Non era inverosimile, nell'ignoranza della causa vera, ipotizzare che la peste potesse essere diffusa mediante unzioni velenose. Tanto più che - lo ricorda Cordero - gli untori c'erano davvero, anche per un fenomeno imitativo o per un parossismo psicologico. Ma quando il Piazza confessa di essere stato richiesto dal Mora giungere persino il muro della casa di lui, Mora, si è di fronte a qualcosa che fa dubitare l'inverosimiglianza. E se per tenere stretto questo magro bottino - poiché la tortura non basta - si ricorre, illegalmente ad una finzione di impunità, vuol dire che si ha bisogno di colpevoli più che di verità. C'è questo spessore "politico" del processo che a me sembra in modo visibile. È tanto inesistente - obietta Cordero, la malafede dei giudici, che l'inchiesta finisce per attingere un personaggio dal quale, politicamente, potevano venire soltanto fastidi.
Se il processo fosse stato preordinato a pagare il prezzo di qualche vira per una ragione di ordine pubblico, non si sarebbe giunti così in alto (al "terzo livello", come si dice oggi). Ma proprio Cordero non dubita che le azioni e i fatti degli uomini si svolgano secondo relazioni complesse ed ambigue. Gli inquisitori milanesi - a guardar bene - non cercano Antonio Padilla. Si imbattono in lui, loro malgrado. Sono condotti lì dalla trappola che hanno montato senza che potessero prevedere tutte le sequenze della messinscena. Fino all'ultima, tragica e comprensibile astuzia di imputati i quali, costretti alla menzogna, avvitati in una contraddizione senza uscita, solo dalla menzogna, quella più clamorosa, potevano invocare se non la speranza, almeno una tregua alla disperazione.
Mi pare, allora, che la vicenda di Antonio Padilla valga a provare il contrario di quello che suppone Cordero. Per la ragione che, a quel punto, il processo si incanala in ambiti rassicuranti e trova, non a caso, un approdo liberatorio. C'è una frattura irreparabile. Se le medesime "prove" valgono per alcuni la morte e per uno la vita, non è possibile dubitare di una ingiustizia. Del resto, non interessa una disputa senza fine. Fuori da ogni pretesto, l'obiettivo di Cordero non è tanto l'opera ma il suo autore. "Politicamente codino" e lui, Manzoni, anzi- come si suggerisce con un più di sarcasmo - il "conte" Manzoni.
L'impresa viene condotta senza esclusione di colpi. L'attitudine asseverativa e cosi dilatata che fa crescere la nostalgia per la misura manzoniana e conferma l'idea che neanche il credere di avere ragione giustifica sempre la critica e tanto meno serve a nobilitarla. Oltretutto, Cordero non sembra avere ragione proprio sul punto che regge tutte le sue accuse. Anche lui incline a considerare Manzoni l'autore di un solo libro, legge la Colonna infame come l`esercizio ipocrita di un dogmatico senza grandezza. Definisce lo stile "omiletico" perchè si capisca bene che si tratta di un sermone, di una scoraggiante predica sul niente. O, nel migliore dei casi, di un'arringa; ma la parola viene scritta come un insulto, quasi che Manzoni fosse lo pseudonimo di Azzeccagarbugli. Insomma, la Storia della Colonna infame non sarebbe il complemento del romanzo, ma un'appendice alle Osservazioni sulla morale cattolica. È ipotizzata, in questo passaggio, l'alienazione manzoniana. L`estenuato "conte milanese", sottomette le sue nevrastenie al rozzo tirocinio di un implacabile direttore spirituale. Ne esce il prodotto ben temperato di un intellettuale organico alla "ideologia cattolica". Questo, alla fine, il succo distillato da Cordero. Si capisce che, per questo filtro, le pagine della Colonna infame subiscano come una deformazione.
L'interrogativo angoscioso intorno alla responsabilità individuale serve solo a scoprire che Manzoni non ha letto sant'Agostino e perciò si intriga con un arnese scadente come il libero arbitrio. E se un uomo che fu - secondo la sua testimonianza - "terribilmente visitato da Dio", non deduce, ma risolve nella speranza cristiana, la tragica contraddizione della storia, apparirà soltanto un premuroso e presuntuoso confidente della provvidenza. Ora, conviene che il rasoio di Occam sia il più tagliente possibile, ma non sino al punto di togliere il diritto di parola o da imbastire un processo alle intenzioni. È un esito, questo, che induce malinconicamente a constatare il tranello di tante inquisizioni, compresa quella dei razionalismi esasperati, Saranno pure banali le riflessioni del conte milanese o di un qualsiasi paesano della Lombardia, ma riduce al silenzio e, anche senza volerlo, alla apatia morale, l'eccesso deterministico. Sarà nuda la scena della Storia manzoniana e ci sarà un'accentuazione moralistica nella requisitoria contro gli autori del processo. Ma questo non accede per una incomprensione. I personaggi della Storia non sono fantasmi. Sono uomini che gridano e piangono, che scelgono e decidono. Come capita a tutti gli uomini. Pur tra tante domande indecifrabili, alcune risposte appartengono a loro e non ad altri. Qui resiste un grumo di singolare responsabilità. Siamo perfino costretti a credere che sia così, se non vogliamo che la storia ~ e la vita - risultino soltanto "il racconto di un pazzo". Non si tratta di giurare su un dogma: Semplicemente, di scommettere sulla vita.
Se i dadi alludono a un rischio più che a una scelta, non per questo devono essere truccati.
L'idea-forza che anima la Storia della Colonna infame consiste nell'intuizione di una libertà morale che non ha modo di dare risposte risolutive ma può trovare il coraggio della provocazione, della inquietudine discontinuità. Tanto più per questo, debbo dire di un turbamento che viene dalla tura di Cordero. C'è il segno della prevaricazione più che della quando si stronca questo Manzoni e al contempo si scrivono pagine rara intensità sulle moderne inquisizioni. Quelle del nostro secolo, quelle che accompagnano l'irruzione dei totalitarismi, quelle che insidiosamente si manifestano tutte le volte che il potere - grande o piccolo, regolato o sregolato - si definisce come volontà di dominio.
La requisitoria manzoniana è carica di questo presentimento. Non propone una distaccata ed arrogante pedagogia. Non pronuncia un'inutile condanna del passato. Testimonia un coinvolto rifiuto che dura nel tempo. Allora, soltanto sfavorevoli congiunzioni astrali possono spiegare la circostanza che l'invettiva di Cordero contro Manzoni intellettuale organico alla "ideologia cattolica", risulti in strepitosa simmetria con l'ottocentesca, gonfia polemica di don Albertario, alfiere dell'intransigenza clericale, contro Manzoni intellettuale organico all' 'ideologia liberale".
Ed è una strana razza di intellettuale organico questo conte milanese, se conclude così l'introduzione alle Osservazioni sulla morale cattolica: "L'uomo può aver qualche volta il dovere di parlare per la verità, ma nonmai quello di farla trionfare".