Con la pronuncia n. 14373 dello scorso 2 aprile, la V sezione penale della Corte di Cassazione ha assolto, un uomo imputato del reato di minaccia per aver esternato al proprio legale, in occasione della revoca dall'incarico, la sua volontà di denunciare pubblicamente i suoi discutibili comportamenti, in quanto nel caso in cui tra autore e vittima sia intercorso un rapporto professionale o comunque un contrasto relativo all'adempimento di obbligazioni reciprocamente assunte, la minaccia di denunciare pubblicamente i soprusi asseritamente patiti «non accompagnata dall'esternazione di un potere avente capacità prevaricatoria e neppure dalla mera intenzione di far ricorso a terzi dotati di tale capacità prevaricatoria, non può assumere concretezza intimidatoria sanzionabile alla stregua del reato contestato.
Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un uomo, accusato del reato di minaccia, per aver pronunciato, rivolgendosi al suo avvocato, la seguente frase "ti sputtanerò in tutte le televisioni ... ti seguirò sempre ... gli starò sempre dietro".
In particolare, era stato accertato che l'imputato aveva dato mandato al legale per intraprendere diverse pratiche giudiziarie; non rimasto soddisfatto per la gestione di una procedura immobiliare, l'uomo si recava presso lo studio del legale per ritirare della documentazione; a seguito di accesso diverbio tra le parti, interveniva la polizia e, alla presenza degli agenti e di un collaboratore di studio della persona offesa, l'imputato si era rivolto all'avvocato pronunciando la frase incriminata.
Il giudice del Tribunale di Taranto – ritenuto che la frase pronunciata integrasse il reato di minaccia – confermava, anche agli effetti civili, la condanna inflitta dal Giudice di Pace di Taranto, limitandosi a ridurre la pena inflitta.
L' uomo proponeva ricorso per Cassazione, rilevando l'assenza degli elementi costitutivi del reato.
In particolare, secondo la difesa dell'uomo le frasi incriminate – correttamente inquadrate nel contesto nel quale erano state pronunciate, ovvero allorché il ricorrente, dopo aver revocato il mandato difensivo all'avvocato dal quale non si sentiva tutelato, si era recato presso lo studio di questi per ritirare i documenti delle relative pratiche – non erano idonee ad incutere timore nel soggetto passivo, poiché l'intenzione, manifestata dal ricorrente, di rivolgersi ai mass-media sarebbe stata espressione di una recriminazione, di uno sfogo, non di un avvertimento.
In secondo luogo, non era presente alcun male minacciato, giacché non rientra nella sfera di disponibilità dell'agente di decidere il contenuto di una trasmissione televisiva; ad ogni modo, anche nel voler rinvenire in quella frase un male, quest'ultimo non sarebbe ingiusto in quanto la denuncia televisiva di un comportamento ritenuto deprecabile costituisce esercizio del diritto di cui all'art. 21 Cost.
Infine difetterebbe l'elemento soggettivo del reato: le frasi oggetto di addebito erano state profferite dall'imputato alla presenza delle forze dell'ordine, nella ferma convinzione di essere nel giusto e con la specifica volontà di ottenere consolazione, giustizia, ristoro.
La Cassazione condivide le tesi difensive dell'imputato.
L'elemento essenziale del reato di minaccia consiste nella limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato dal colpevole alla parte offesa.
In punto di diritto, gli Ermellini rilevano che il delitto di minaccia, quale reato di pericolo, non presuppone la concreta intimidazione della persona offesa, ma solo la comprovata idoneità della condotta ad intimidirla; tuttavia, affinché alla astratta offensività della fattispecie incriminatrice corrisponda la necessaria offensività in concreto della condotta contestata, occorre che il contesto della vicenda e i rapporti tra le parti, e cioè la situazione contingente, rendano evidente l'ingiustizia del "male" futuro che viene prospettato.
Pertanto, ne deriva che nel caso in cui tra autore e vittima sia intercorso un rapporto professionale o comunque un contrasto relativo all'adempimento di obbligazioni reciprocamente assunte, la minaccia di denunciare pubblicamente i soprusi asseritamente patiti «non accompagnata dall'esternazione di un potere avente capacità prevaricatoria e neppure dalla mera intenzione di far ricorso a terzi dotati di tale capacità prevaricatoria, non può assumere concretezza intimidatoria sanzionabile alla stregua del reato contestato».
Con specifico riferimento al caso di specie, la condotta dell'imputato, così come descritta nell'editto accusatorio e individuata nella sentenza impugnata, non integra il reato di minaccia.
Difatti, gli Ermellini evidenziano come, considerato l'intero contesto della vicenda, la frase profferita dall'imputato non abbia il valore e il significato di una minaccia, posto che il male prospettato, per un verso, non assume il carattere dell'ingiustizia (non alludendo a una denuncia falsa ma solo all'intenzione di rendere pubblico il comportamento di cui l'imputato si riteneva vittima), e, per altro verso, non rientra nella sfera di disponibilità dell'agente, implicando l'accesso al mezzo televisivo certamente estraneo al potere di controllo dell'imputato.
In conclusione la Cassazione accoglie il ricorso dell'uomo e annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.