Di Redazione su Domenica, 12 Gennaio 2020
Categoria: I classici della pedagogia

Maria Boschetti Alberti e il diario di Muzzano: "Lo zio Pep"

 Maria Boschetti Alberti (Montevideo, 23 dicembre 1879Agno, 20 gennaio 1951) è stata un'insegnante e pedagogista svizzera-italianaNacque in Uruguay da Giuliano e Teofila Ferretti di Bedigliora, emigrati in Sud America negli anni precedenti, quarta di otto figli, tra cui Giacomo e Francesco. Rientra in Svizzera nel 1883 insieme al resto della sua famiglia e si diploma pedagogista a Locarno, iniziando immediatamente ad insegnare. Importò nella sua scuola il metodo di Maria Montessori, adattandolo alla realtà ticinese. Nonostante alcuni iniziali scetticismi e resistenze, nel corso degli anni ricevette diversi riconoscimenti da autorità nazionali ed estere, non solo europee.

Fra le varie opere si ricordano: Il diario di Muzzano, La scuola serena di Agno e Il dono di sé nell'educazione. Nel 1998 la TSI (Televisione svizzera di lingua italiana) ha realizzato un documentario sulla sua vita e sulla sua attività di educatrice.

Secondo Alberti il lavoro scolastico si articola in tre gruppi di attività: l'accademia, il controllo e il lavoro libero. L'accademia comprende letture, poesie, recite, tutto ciò programmato dai ragazzi. Il controllo viene svolto dall'insegnante seguendo ogni giorno un'attività diversa che i ragazzi sviluppano attraverso un lavoro individuale di due settimane. Il lavoro libero si svolge a gruppo e si svolgono le attività per le quali i ragazzi si sentono maggiormente attratti.

 Lo zio Pep (da il "Diario di Muzzano")
Fu certamente lo zio Pep a indirizzarmi verso le "scuole nuove". Lo zio Pep era fratello di mia madre
(ora son morti entrambi) ed era un grande lavoratore, uomo pieno di buon senso. Amava istruirsi, e la
sua conversazione era assai interessante. Ma quando aveva un po‟ bevuto (per bere trovava il tempo
anche in mezzo ai suoi gran lavori), allora, se lo incontravo, eran guai.
"La maestra! Eccola „la maestra‟! (E che disprezzo metteva in questa parola!). Una volta che uno si
dice „maestro‟, crede di conoscere già tutto lo scibile umano; non pensa più a studiare, a leggere: è
„maestro‟! Hanno ragione i Francesi che dicono: „Bête comme un maȋtre d'école…‟. I maestri moderni,
poi, con tutte le loro pretese!... Hanno più criterio gli allievi dei maestri. Almeno, hanno più criterio
prima di andare a scuola: perché quando sono a scuola, i maestri li incretiniscono. Provate ad entrare in
una scuola: si alzano tutti in piedi come burattini ai quali sia stato tirato il filo; belano tutti insieme il
medesimo saluto; poi restano lì tutti, in piedi come babbei. Hanno tutti l‟impressione chiusa e ristretta
del loro maestro…".
[…]
Al pensiero del nonno, si chetava il risentimento per le parole dello zio Pep.
Ma al mattino, quand‟entravo nella scuola, non potevo fare a meno di riflettere: "Eppure lo zio Pep ha
ragione: questi ragazzi si alzano tutti come burattini ai quali si tiri lo spago dietro: belano tutti il
medesimo saluto; hanno precisamente facce tutte eguali, sguardi senza espressione, occhi di vetro".
E li osservavo. Fuori, sul piazzaletto (era il piazzaletto del villaggio ticinese di Muzzano) erano pieni di
brio, esuberanti di vitalità. Ma appena suonava l‟ora delle lezioni salivano le scale levandosi il berretto,
e prendevano un‟espressione di rassegnata passività: quando poi varcavano la soglia della classe, eranoaltri ragazzi: voci senza colorito (fin la voce cambiavano!), occhi senza espressione, maschere
senz‟anima…
"Ma perché – mi domandavo – ma perché cambiano così? Siamo veramente noi maestri che li
incretiniamo?".
In cerca di novità
Allora mi venne volontà di sapere se in tutte le scuole gli alunni subivano questa trasformazione. E
quando lessi che la Società Demopedeutica prometteva un sussidio al maestro che avesse voluto andare
all‟estero a studiare i nuovi metodi d‟insegnamento per i deficienti, con grande ansietà scrissi al
Presidente della Demopedeutica, prof. Tamburini. Fui felicissima quando egli mi rispose
concedendomi il sussidio: felicissima perché pensavo: "Studierò per gli anormali; ma nel medesimo
tempo visiterò molte scuole di normali, e forse troverò la soluzione del problema che mi preoccupa".
Domandai dunque al mio papà il permesso di recarmi in Italia per seguire quel corso di studi.
Egli mi rispose: "Vedremo".
Quella risposta così vaga mi fece male. Ma sapevo per esperienza che col papà (son tutti morti ora, tutti
morti!) dovevo sempre attendere le risposte. Difatti mi chiamò due o tre giorni dopo e mi disse: "Ho
parlato col tuo Ispettore. Dice che tu fai benissimo scuola: ch‟egli non ti domanda né crede che tu possa
far meglio. Dunque anch‟io, come lui, credo che non sia il caso che tu vada in Italia a far corsi e altre
novità".
Tentai di spiegargli che non ero contenta dei risultati che ottenevo. Ma non m‟arrischiai a dirgli che
quel che più m‟interessava era sapere perché gli alunni fossero fuori di scuola vivi, e dentro morti.
Ripeté: "La mia risposta te l‟ho data. Se vuoi andare a far corsi inutili, va pure. Io non te lo proibisco:
ma non ti do neanche un centesimo".
[…]
Ma qui voglio fermarmi, e fare alcune osservazioni.

 In quei tempi, non avevo amore per i miei scolari. Eravamo anzi nemici. Io, da una parte, sulla cattedra,
ritta, severa, come una divinità antica: loro dall‟altra, separati da me da un muro di ghiaccio. Io, sola,
con la mia forza che consisteva tutta nei castighi: essi, tutti uniti in una segreta società, tutti uniti contro
di me. Nemici.
Non potendo amare i miei alunni, non amavo neanche la scuola. Ogni giorno aspettavo con impazienza
l‟ora dell‟uscita: aspettavo con impazienza i giorni di vacanza. Non amando i miei alunni, non amando
la scuola, si può figurarsi che lezioni io facessi! L‟onorario mensile era il mio „solo‟ ideale. E confesso
(e nel confessarlo, arrossisco) che quando il romanzo che stavo leggendo era proprio interessante, lo
portavo in iscuola e finivo di leggerlo nascondendolo nel cassetto semiaperto della cattedra.
Dio mi perdoni tutto il male fatto a quelle anime di ragazzi, in quegli anni!
Ebbene: il signor Ispettore trovava che io facevo scuola benissimo: la Demopedeutica mi largiva
sussidi: il Dipartimento "Educazione" mi dava lettere di raccomandazione.
Oggi, che sento di fare la scuola con vera passione, che amo i fanciulli, che prendo la più minuziosa
cura della loro educazione ed istruzione, credete che l‟ispettore direbbe ch‟io faccio benissimo la
scuola? Che le Società pedagogiche mi largirebbero ancora sussidi? Che otterrei ancora dal lod.
Dipartimento "Educazione" lettere così lusinghiere?
Io credo di no.
E perché?
Forse per questo: quando uno sa di non compiere il suo dovere, se si trova davanti ai suoi superiori, si
industria il più possibile per convincerli, per ingannarli; mentre quando uno è persuaso di fare del suo
meglio, sdegna ogni falsità. E la verità sola, nuda, non appoggiata da alcunché di „morbido‟, forse non
serve a convincere.
O forse anche per questo: che una faccia giovane, con qualche dote esteriore, convince meglio di una
faccia già segnata dal marchio del tempo».

Messaggi correlati