Con la sentenza n. 41893 dello scorso 11 ottobre, la IV sezione penale della Corte di Cassazione, ha assolto un sanitario che aveva omesso di compiere tutte le manovre di rianimazione necessarie su un paziente affetto da arresto cardiaco in quanto, anche se si fosse intervenuto con il defibrillatore, tenuto conto delle cognizioni scientifiche e delle specificità del caso concreto, il paziente aveva un margine di sopravvivenza stimato tra il 2% e l'11%.
Si è quindi ribadito che il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere riscontrato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, fondato non solo su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, ma anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto.
Il caso sottoposto all'esame della Cassazione prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un medico, imputato del reato di cui all'art. 589 c.p. per il decesso di un signore avvenuto a seguito di insufficienza cardiaca; nel capo di imputazione si addebitava al sanitario, intervenuto in via d'urgenza a seguito della chiamata al 118, di aver omesso di compiere tutte le manovre di rianimazione necessarie.
Nel corso del giudizio di primo grado, l'imputato veniva assolto in quanto si era accertato che era intervenuto sul posto dopo circa 20/25 minuti dalla chiamata, in un momento in cui il decesso della vittima era purtroppo già avvenuto sicché, accertata la morte clinica del paziente, il sanitario non effettuava la rianimazione, conformemente ai protocolli nazionali ed internazionali.
La Corte di Appello di Roma, in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado, condannava il medico alla pena della reclusione di un anno.
La Corte capitolina motivava la pronuncia di condanna sulla base delle dichiarazioni rese dalla convivente della vittima, che aveva riferito che l'ambulanza era pervenuta sul luogo circa 8 minuti dopo la chiamata al 118 allorquando il paziente era cosciente e respirava, sebbene male; alla luce di tanto, la Corte di appello evidenziava che, se fossero state effettuate le procedure atte a mantenere una ossigenazione di emergenza, sarebbe stata scongiurata con buona probabilità la progressione verso un irreversibile danneggiamento dei tessuti e degli organi.
Avverso la pronuncia di condanna, il sanitario ricorreva in Cassazione, eccependo il totale travisamento dei fatti in merito al momento in cui era intervenuto il decesso e, sulla base di ciò, evidenziava la totale assenza del nesso di causalità tra omissione e il decesso della vittima.
In particolare, il medico si doleva in quanto gli era stato rimproverato di non aver neppure tentato le pratiche rianimatorie, ma sottolineava come la sentenza impugnata non aveva affatto accertato il determinismo causale dell'omessa condotta rispetto all'evento letale, limitandosi a sostenere – in assenza di ogni giudizio controfattuale e senza confutare in alcun modo le argomentazioni del giudice di primo grado – che la rianimazione cardiopolmonare avrebbe attribuito alla vittima la possibilità di sopravvivenza tra il 2% e 11%.
La Cassazione condivide la doglianza del ricorrente.
La Corte premette come, a partire dal noto arresto Franzese, il rapporto di causalità è configurabile in quanto si accerti – sulla scorta di un giudizio controfattuale – che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.
Il giudizio di elevata credibilità razionale implica che il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere riscontrato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, fondato non solo su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, ma anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto.
Con specifico riferimento al caso di specie, le conclusioni raggiunte non sono, tuttavia, coerenti con tali premesse, atteso che nella sentenza impugnata si è ritenuto sussistente il nesso di causalità sebbene si fosse evidenziato che, tenuto conto delle cognizioni scientifiche e delle specificità del caso concreto, le possibilità di sopravvivenza erano stimate in un arco tra il 2% e l'11%.
Gli Ermellini rilevano come tali esigue percentuali di salvezza ricollegate al comportamento doveroso omesso non consentono di affermare che, se tale condotta fosse stata tenuta, l'evento non si sarebbe verificato con probabilità confinante con la certezza; diversamente, l'inosservanza della regola cautelare ha privato la vittima di marginali chanches di sopravvivenza, sicché la causalità potrebbe ritenersi sussistente in base alla teoria dell'aumento del rischio, ma non a quella del condizionale contro-fattuale, ormai recepita nell'elaborazione giurisprudenziale.
Da ultimo la Corte evidenzia come è superfluo accertare se l'imputato sia giunto sul posto prima o dopo la morte del paziente, in quanto, in considerazione delle cognizioni mediche e delle circostanze del caso concreto, il suo intervento non avrebbe potuto salvarlo con il grado di certezza richiesto, dall'elaborazione giurisprudenziale, ai fini della configurabilità del nesso causale.
La Cassazione accoglie il ricorso e annulla senza rinvio la sentenza impugnata.