Di Rosalia Ruggieri su Martedì, 03 Settembre 2019
Categoria: Donne

Maltrattamenti in famiglia, SC: “La gelosia non giustifica l’ossessivo controllo del partner”

Con la sentenza n. 32781 dello scorso 22 luglio, la VI sezione penale della Corte di Cassazione, ha confermato la condanna per il reato di maltrattamenti inflitto ad un uomo che aveva controllato in maniera maniacale la compagna, escludendo che gli atteggiamenti dell'uomo potessero costituire semplici reazioni tipiche di un uomo animato da gelosia verso la partner.

Si è difatti specificato che i comportamenti di controllo della vita sociale e intima della persona offesa non perdono la loro valenza invasiva e la loro carica di vessatorietà sol perché determinati dalla gelosia e, viceversa, tali atti implicano la necessità di un attento scrutinio della loro ricorrenza perché gravemente lesivi della privacy dell'individuo e dimostrano, per la scarsa considerazione e rispetto della parte offesa, una volontà e condotta di prevaricazione, e correlativa soggezione della persona offesa, elementi che costituiscono il dato caratterizzante la figura delittuosa dì cui all'art. 572 c.p..

Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un uomo, accusato del reato di cui all'art. 572 c.p. ai danni della convivente.

In particolare, l'imputato aveva effettuato numerose chiamate e videochiamate alla compagna per verificare dove e con chi si trovasse; aveva preteso, inoltre, l'invio di messaggi video per verificare l'attendibilità della donna e, preso dalla gelosia, sovente aveva minacciato di morte sia quest'ultima che il suo potenziale amante.

Il Tribunale di Ravenna, all'esito di rito ordinario, assolveva l'imputato, ritenendo che il fatto non sussistesse: il giudicante, infatti, escludeva la natura vessatoria dei comportamenti tenuti dall'imputato, riconducendoli tutti a semplici reazioni tipiche dell' uomo comune animato da gelosia verso la partner.

Ricorrendo in Cassazione, il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Ravenna deduceva erronea applicazione della legge penale, con riguardo alla nozione di maltrattamenti. 

Più nel dettaglio, si rilevava come, nel corso del dibattimento, fosse ampiamente emerso il carattere violento dei comportamenti perpetrati dall'uomo, il quale – oltre a minacciare la donna – la controllava in maniera manicale (attraverso telefonate, controlli con GPS, estenuanti interrogatori notturni, telecamere nascoste, controllo dell'igiene personale), la denigrava e le mostrava il proprio disprezzo, coinvolgendo anche le figlie minori.

Tuttavia, con una lettura riduttiva e trascurandone il carattere violento, la sentenza impugnata aveva ricondotto siffatti atteggiamenti a comportamenti tipici della fine di una relazione, qualificabili come episodi di gelosia, così elidendo qualsiasi valenza penale.

La Cassazione condivide le argomentazioni della pubblica accusa.

La Corte premette che, ai fini della ricostruzione del reato di maltrattamenti, è essenziale accertare l'abitualità e ripetitività della condotta lungo un ambito temporale rilevante, senza che la valutazione di offensività possa arrestarsi a fronte di condotte che non culminino in veri e propri atti di aggressione fisica. Difatti, anche comportamenti fisicamente non violenti, che si arrestano alla soglia della minaccia, raggiungono la soglia della rilevanza penale ai fini del reato di cui all'art. 572 c.p., quando si collochino in una più ampia e unitaria condotta abituale idonea ad imporre alla vittima un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile.

Con specifico riferimento alle condotte serbate nei momenti di crisi della coppia e volte al controllo maniacale del partner, il giudice deve necessariamente compiere un'approfondita analisi volta alla puntuale ricostruzione della dinamica del rapporto interpersonale, al fine di valutare se le condotte contestate – in quanto ingiuriose, violente ed aggressive – possano o meno ricondursi a episodi di maltrattamenti. 

 Tale indagine diviene ancor più rilevante in casi, come quello di specie, ove l'imputato assume comportamenti minatori e invadenti della vita sociale ed intima della persona offesa per un apprezzabile periodo temporale, e con particolare riguardo alla qualità ed intensità di condotte: la sentenza in commento ricorda, infatti, che i comportamenti di controllo della vita sociale e intima della persona offesa non perdono la loro valenza invasiva e la loro carica di vessatorietà sol perché determinati dalla gelosia e, viceversa, tali atti implicano la necessità di un attento scrutinio della loro ricorrenza perché gravemente lesivi della privacy dell'individuo e dimostrano, per la scarsa considerazione e rispetto della parte offesa, una volontà e condotta di prevaricazione, e correlativa soggezione della persona offesa, elementi che costituiscono il dato caratterizzante la figura delittuosa dì cui all'art. 572 c.p..

Nel caso in esame, era stato accertato che i controlli telefonici e video effettuati dall'imputato per verificare dove si trovasse la compagna avevano raggiunto un livello di intensità tale da offendere grandemente la persona e la personalità della vittima: gli Ermellini censurano quindi la sentenza impugnata, ribadendo che nell'ambito di un rapporto interpersonale caratterizzato da forme di minaccia e invadenza della vita sociale ed intima della persona offesa, il comportamento dell'imputato non può essere ricondotto, per deprivarlo di idoneità offensiva, a quello della medialità che rispecchi le reazioni dell'uomo comune animato da gelosia verso la partner.

In conclusione la Cassazione annulla la sentenza impugnata, disponendo la trasmissione degli atti alla Corte di appello Bologna, ai sensi dell'art. 569 c.p.p..

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