Di Rosalia Ruggieri su Martedì, 14 Maggio 2019
Categoria: Legge e Diritto

Maltrattamenti in famiglia, SC: “Il reato è integrato anche nel caso di breve convivenza”

Con la pronuncia n. 19922 dello scorso 9 maggio, la VI sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato la condanna per maltrattamenti in famiglia inflitta ad un uomo che aveva convissuto con la propria compagna solo 10 mesi specificando che "il reato di maltrattamenti in famiglia è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l'insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale. Ne deriva che il delitto è configurabile anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza".

Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un uomo, accusato per il reato di maltrattamenti e lesioni personali dolose aggravati, commessi in danno della sua fidanzata con la quale aveva convissuto per alcuni mesi.

L'indagato si difendeva rilevando come il loro rapporto era sempre stato conflittuale: la ragazza, lungi dall'essere in una posizione di inferiorità, frequentemente era la prima ad aggredirlo fisicamente e, durante i litigi, piuttosto che chiamare le forze dell'ordine od i familiari, si limitava a postare l'immagine dei suoi sanguinamenti su "Facebook"; a fronte dell'alta conflittualità l'uomo aveva più volte invitato la propria compagna ad allontanarsi di casa, ma lei aveva sempre preferito proseguire nella convivenza.

Per tali fatti, sia il Tribunale di Roma che Corte di appello di Roma – all'esito di una copiosa istruttoria nel corso della quale erano stati escussi diversi testimoni (nella specie, oltre alle dichiarazioni rese dalla persona offesa, si erano ascoltati anche i suoi parenti ed altri terzi estranei al nucleo familiare), acquisiti numerosi certificati medici, fotografie, messaggi "Facebook" e relazioni di servizio, redatte dagli operatori di polizia in occasione di vari interventi – disattendevano le difese dell'imputato e lo condannavano alla pena di giustizia. 

In particolare, le sentenze di condanna ritenevano che l'imputato, conformemente ai capi d'imputazione, era in una vera e propria posizione di supremazia nei confronti dell'ex convivente: non solo la picchiava provocandole lesioni e numerosi sanguinamenti, ma la costringeva anche ad indossare gli abiti da lui voluti.

L'uomo proponeva ricorso per Cassazione, deducendo l'errore della Corte che aveva ritenuto integrato il reato sebbene non si fosse raggiunta la prova piena sui fatti a lui contestati, per via dell'assoluta inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, peraltro non supportate da alcun riscontro.

Evidenziava, inoltre, erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione con riferimento all'art. 572 c.p., per aver la sentenza impugnata ritenuto sussistente il reato sebbene
non vi fosse un rapporto di supremazia dell'imputato sulla querelante e sebbene non vi fosse, tra costoro, un rapporto di tipo familiare, mancando un comune progetto di vita.

La Cassazione non condivide le tesi difensive dell'imputato.

Gli Ermellini rilevano come le censure formulate siano sostanzialmente volte a sollecitare la Corte a compiere una – inammissibile – rivalutazione in fatto delle emergenze istruttorie.

Difatti, le minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, non possono dar luogo all'annullamento della sentenza se tali elementi – considerato tutto il quadro probatorio, contestualizzato ogni elemento apportato – non assumono l'inequivocabile carattere di decisività. 

Con specifico riferimento al caso di specie, le circostanze evidenziate dalla difesa rappresentano mere spigolature, del tutto conciliabili con i comportamenti maltrattanti dell'imputato, messi in luce dalle conformi sentenze di condanna, e, perciò, non idonee ad incidere sulla solidità logica dell'impianto motivazionale.

Altrettanto infondata è la doglianza secondo cui mancherebbe il presupposto imprescindibile per aversi il reato di maltrattamenti in famiglia, ovvero uno stabile rapporto familiare.

Sul punto, infatti, non devono sussistere dubbi in ordine alla circostanza per cui l'art. 572 c.p., è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l'insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale. Ne deriva che il delitto è configurabile anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza.

Con riferimento alla vicenda in esame, l'imputato e la parte civile, oltre ad avere intrattenuto una relazione sentimentale, hanno convissuto nella stessa abitazione per circa dieci mesi sicché il reato è integrato.

Da ultimo, la Corte specifica come non osta all'incriminazione l'asserita
reciprocità delle condotte aggressive
, posto che, in tema di maltrattamenti in famiglia, lo stato di inferiorità psicologica della vittima non deve necessariamente tradursi in una situazione di suo completo abbattimento, potendo consistere anche in un avvilimento generale conseguente alle vessazioni patite, senza che sporadiche reazioni vitali ed aggressive da parte della stessa possano escluderne lo stato di soggezione, a fronte di soprusi abituali.

In conclusione la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende. 

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