Luigi Condemi, (Marina di Gioiosa Ionica 1939) vive a Roma. Magistrato della Corte dei Conti, autore di numerosi testi di narrativa: Eccellenza laiche, Spirali, Milano 1986; Donne di Calabria, Spirali, Milano La luna di marzo, Spirali, Milano 2001; La bella alla finestra e la bella alla porta, Spirali, Milano 2004, nel 1987 vincitore del Premio della cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e del premio biennale "La penna del giudice", a Siena.
da: La bella alla finestra e la bella alla porta, Spirali, Milano 2004.
Conseguita la laurea in giurisprudenza, mi fermai a Roma per frequentare un corso di perfezionamento in lingua e letteratura francese, una mia vecchia pratica coltivata con profitto a Termini Imerese fin da quando, ancora ragazzina, mio padre mi spronava a imparare almeno una lingua straniera, preferibilmente il francese, da lui considerata la lingua delle persone colte.
Stavo per compiere ventitre anni. Con Nicola tutto andava per il meglio, e l'accordo di scioglierci dal nostro rapporto quando uno dei due si fosse stancato (o lo avesse voluto) sembrava molto lontano dal realizzarsi. Ritornai a Termini Imerese, festeggiata dagli amici e dai miei genitori. In quell'occasione, conobbi un giovane ingegnere, serio, mi somiglia, abbastanza simpatico e molto buono. Mi copriva di gentilezze e di regali. Ci mettemmo insieme. I miei ne erano contenti. Lui era innamoratissimo. Il classico cavalier servente. Forse il marito ideale. Ma ero insoddisfatta. E lo ero perchè non reggeva il paragone con Nicola. Del resto nessuno di mia conoscenza era paragonabile a lui. Col mio "professore" avevo imparato a conoscere la vita e gli uomini. Nicola era un uomo completo sotto ogni aspetto, mentre Piero, il mio ingegnere, era un ragazzo. Un buon ragazzo. Carino, generoso e gradevole, ma assolutamente inesperto e poco stimolante. A letto, poi, rovinava tutto per via della sua abituale "eiaculatio precox". In paese sapevano che noi stavamo insieme. Eravamo guardati da tutti con compiacimento. Soprattutto dai miei genitori, i quali erano tranquilli e riponevano in me la massima fiducia. Questo sto fatto mi consentiva una certa facilità di movimento. Infatti, nessuno immaginava che io avessi contemporaneamente un'altra relazione con un medico. Si trattava di Alberto, da poco laureato in medicina, pur avendo abbondantemente superato i trent'anni. Era di Messina, anche se io l'avevo conosciuto in Puglia a Brindisi, dove mi ero recata a trovare mia zia. Atletico, di bell'aspetto, aveva condotto studi piuttosto indecisi e a rilento. Non lavorava e doveva ancora decidersi a intraprendere una specializzazione. Non so dire che reddito avesse. So solo che faceva frequenti viaggi in Thailandia a scopo turistico-sessuale. Era affamato di sesso come un recluso e assettato di libertà. A letto era insaziabile. Nonostante ciò, o forse per questo, mi intrigava parecchio. Era però sessualmente egoista. I primi tempi si dimostrava gentile e comprensivo; poi mi accorsi che faceva parte della sua tecnica di aggancio e che mirava solo a un letto a due piazze. Era capace di quattro o cinque godimenti a ogni incontro. Restavo stordita, ma inesorabilmente attratta. Mi sentivo quasi soggiogata, pur sapendo che mi trattava come un giocattolo con cui sfogare la propria libido, dato che anche con me non faceva mistero di andare con prostitute, di avere una ragazza fissa in Thailandia e di frequentare pure altre donne, senza badare che fossero vecchie o giovani, nubili o maritate. E se ne faceva un vanto.
Era un vulcano. Non aveva remore o delicatezze. Un amorale. Appresso a lui mi stavo abbrutendo. Però il desiderio di averlo in me era più forte di qualsiasi ragionamento e di ogni resistenza. Mi tempestava di telefonate e messaggi sul cellulare. Non mi lasciava il tempo di riflettere. Credo che sia comune a tutte le donne l'attrazione verso gli uomini canaglia. Quelli che sono veramente bravi ragazzi non danno soddisfazione: sono una preda troppo facile. Non intrigano, non stimolano. Sono stimati dai genitori delle ragazze come possibili generi. Le interessate in prima persona apprezzano le loro virtù, ma non avvertono alcun trasporto. Di ogni mia nuova conquista mettevo al corrente Nicola, il quale non mi lesinava consigli e suggerimenti. Notavo che, nonostante cercasse di apparire distaccato e saggio, era geloso. Lo era nei confronti di Alberto, che considerava un mezzo fallito come medico e come uomo; disprezzava il suo modo di comportarsi e soprattutto la fissazione di fare sesso a ogni costo con chiunque, ponendo al centro delle sue aspirazioni la conquista del maggior numero possibile di donne e l'affermazione della propria mascolinità. Insomma, il meridionale deteriore, il maschio dominatore. Quanto a interessi culturali e artistici, non ne aveva nessuno. Sulla base delle mie descrizioni, a Nicola era antipatico. Forse perché sapeva che ne ero fisicamente attratta. Mi diceva che non era adatto a me e che semmai avrei dovuto mettermi con Piero o con qualcuno simile a lui. Quando ritornavo a Roma m'incontravo pure con Nicola. Ormai avevo un uomo in ogni luogo che frequentavo.
Con Nicola riuscivo a raggiungere il massimo della felicità: mi sentivo tranquilla, serena e ogni volta era quasi un nuovo innamoramento. L'unico rammarico era di non averlo tutto e solo per me, nonché la grande differenza di età. Sarebbe stato il compagno ideale. Era da più di un anno che la nostra storia continuava, anche se io mi incontravo con diversi altri uomini. Ormai avevo scoperto l'amore e mi piaceva molto. Del resto, era stato proprio Nicola a farmelo scoprire. Per i miei comportamenti lui mi rimproverava, e aveva ragione, ma era più forte di me esser curiosa negli intrighi sentimentali. Di qualsiasi genere e con chiunque. Un giorno mi riferì un'affermazione di Lord Byron, che mi rimase impressa tanto era calzante: la prima volta la donna ama l'amante, mentre tutte le altre volte ama l'amore. A me era capitato proprio questo: ormai non riuscivo a fare a meno di frequentare uomini. Mi emozionavano particolarmente le novità. Era sufficiente che i partners fossero belli e gentili. Anche i timori di restare incinta o di incappare in un malattia venerea si erano attenuati. Prendevo poche precauzioni. Soltanto la pillola; a volte neppure quella.
Tornata a Roma, Nicola mi propose di andare con lui a Reggio Calabria, per alcuni accertamenti giudiziari, accettai con entusiasmo. Era la prima volta che salivo su un aereo e non nascondo che avvertivo un po' di paura. L'appuntamento all'aeroporto era al banco del check-in e Nicola mi prese in giro perché, oltre al trolley, portavo un minuscolo zainetto dietro le spalle. -Proprio come le ragazzine -, cosi disse. Fu una bella emozione. A Reggio, con un'automobile in affitto visitammo alcuni paesi vicini: Sant'Elia (da cui si vedevano le isole Eolie), Bagnara, Villa San Giovanni. Ci fermammo a colazione in un ristorantino di Scilla, proprio a ridosso del pittoresco porticciolo di Chianalea, forse il borgo marinaro più bello che abbia mai visto.
Per la notte prenotammo due camere diverse nello stesso albergo perché lui, da magistrato in missione per lavoro, non voleva correre rischi. Dormimmo però nella mia stanza. Dalla finestra si ammirava il panorama dello Stretto alla confluenza del mar Ionio con il Tirreno, mentre sullo sfondo le luci di Messina splendevano fin sulle colline intorno, confondendosi con il brillio delle stelle. Il giorno dopo visitammo la città di Messina; mangiammo in un ristorante nella vicina Ganzirri, proprio a ridosso della punta estrema del canale; poi, al rientro, gustammo i cannoli alla ricotta e le cassatine alla siciliana nella pasticceria Billè, in piazza Cairoli.
Tornammo a Reggio in aliscafo. All'uscita dal porto discutemmo sul significato della frase latina sul piedistallo della statua della Madonnina: Vos etipsam civitatem benedicimus. A Reggio facemmo prima una capatina al museo della Magna Grecia per vedere i due Bronzi di Riace, quindi una lunga passeggiata sulla via Marina, che i reggini definiscono il più bel chilometro d'Italia. Alla sera, cenammo in albergo, poi, nella mia camera, avemmo un atto d'amore da brivido, per usare un'espressione del gergo universitario romano.
In quel periodo, io e Nicola facemmo gite anche a Firenze, a Napoli, a Siena e ad Anagni. Lui si giustificava in famiglia adducendo impegni professionali. Per noi, erano momenti di felicità e spensieratezza. Nicola ringiovaniva. Nell'umore e nello spirito. Ogni giorno mi sorprendeva sempre di più. Sarebbe stato il marito (il compagno) più adorabile del mondo.
Un giorno, mi propose una gita a Parigi. Mi chiese, sorridendo, di fargli da interprete, visto che lui conosceva soltanto lo spagnolo. Doveva partecipare (con una relazione sul principio di legalità nella costituzione italiana) a un congresso organizzato alla Sorbona dai giuristi francesi. Cinque giorni nella Ville Lumière. Ne fui entusiasta. Risposi di sì senza pensarci due volte. - E a Costanza che cosa dirai? Perché non ti accompagna lei? Siamo già stati altre volte a Parigi. E poi non può venire perché per gli stessi giorni ha già organizzato una visita ai castelli laziali per conto del suo circolo. Dire che Parigi è meravigliosa è come scoprire l'acqua calda. Lo sanno tutti. Ma vivere la città con l'amore a scandire ogni attimo del giorno e della notte è semplicemente fantastico. I bistrot di Montmartre, i caffè di Saint-Germain, i ristoranti della Rive Gauche, il lungosenna con i suoi negozietti di stampe e libri antichi, le vetrine dei negozi alla moda di Faubourg Saint-Honoré, le brasserie del quartiere latino, i monumenti della città e, tra i monumenti, i parigini, sono gli ingredienti per vivere felici. Per voler bene al prossimo. Per amare la vita. E io amavo Nicola e quindi amavo la vita, poiché Nicola era la mia vita.
Quando il mio adorato "professore" tenne la sua relazione, io ero tra il pubblico ad ascoltare e a osservare le reazioni. Tutti attenti, moltissimi avevano la cuffia della traduzione simultanea. Nicola parlava in italiano. Ricordo la conclusione del suo intervento quando, dovendo far riferimento alla necessità dell'esistenza di regole giuridiche per disciplinare i rapporti interpersonali, citò il Barbero. I francesi erano attentissimi mentre lui concludeva dicendo: "Chi ha detto che la funzione del diritto è secolare ma caduca, che il diritto c'è sempre stato, perché l'umanità comincia dal basso, ma non sempre ci sarà perché procede verso l'alto, che man mano che la regola etica va acquistando la sua forza, il diritto perde a poco a poco la sua ragione; ebbene costui ha fatto un atto di fede, al quale anch'io mi voglio associare, ma non senza una riserva. Cammini pure l'umanità verso l'alto; è il voto di ognuno e il suo destino. Ma non si creda che la più alta vetta di questo mondo sia contraddistinta dalla mancanza del diritto. Sarà contraddistinta dalla mancanza della ribellione alla legge del diritto e perciò, di riflesso, dalla mancanza della coazione. Ma fin quando al mondo ci saranno due uomini, fossero anche questi uomini san Francesco e santa Chiara, il diritto è fra loro, a indicare il giusto". Fu un`ovazione. Tutti applaudirono con convinzione e compiacimento . E lo si capiva dal modo con cui assentivano rivolgendosi gli uni agli altri. Quella stessa sera, dopo uno spuntino in un locale della Rive Gauche, ci inoltrammo su un ponte della Senna che portava proprio sul lato sinistro della cattedrale di Notre-Dame. Era il famoso Petit Pont che immetteva in rue de la Cité. Sul ponte c`era una piccola folla: chi seduto sul marciapiede, chi appoggiato alla spalletta del ponte ascoltava un concertino di tre giovani, due ragazzi e una ragazza, che suonavano un violino, un violoncello e un flauto.
Alcuni brani erano di musica classica, altri di musica leggera. I tre non chiedevano soldi, suonavano per diletto. L'aria era tiepida e tutt'intorno la città mostrava il volto più bello. I lungosenna erano illuminati, la torre Eiffel era illuminata, i vaporetti che transitavano sul fiume erano illuminati, a me e a Nicola brillavano gli occhi dalla gioia. Quindi anche noi eravamo illuminati. Ma la nostra luminosità nasceva dalle nostre anime che gioivano all'unisono, che parlavano attraverso i nostri complici sorrisi. Perché in quel momento la gioia era dappertutto, portata da una leggera brezza che accompagnava il lento scorrere del fiume, saliva verso di noi, accarezzava i nostri volti, rapiva le note musicali degli strumenti dei tre giovani e le trasportava per la città, verso il cielo senza nuvole, al di là del cielo, verso le stelle infinite. Era una sensazione dolcissima che legava insieme persone diverse in
un luogo che in quel momento rappresentava l'universo mondo nella sua
immagine migliore.
Rimanemmo un bel po' ad ascoltare, poi mi venne un'idea: mi avvicinai ai giovani musicisti e, indicando Nicola come noto compositore e suonatore di violino, chiesi di fargli suonare qualcosa. Dissero di sì, ma Nicola rifiutava ogni sollecitazione. Poi, per accontentarmi e per non sembrare scortese, si avvicinò e, dando il titolo del brano e la tonalità dell'esecuzione, cominciò a suonare. Tutti e tre conoscevano il pezzo: Fragastò. Alla fine venne convinto a continuare con altri brani. Il tutto durò un bel po', quindi Nicola e io fummo invitati dai tre musicisti a bere un drink nel loro appartamento, che si trovava all'ultimo piano di un edificio non lontano dal lungosenna dove avevano tenuto il concertino, vicino al nostro albergo.
Giunti alla loro casa, l'ospite fece un giro di telefonate e subito arrivarono altri giovani con qualche strumento musicale e cibarie varie, come pane, formaggi, pane da forno per crostini, salumi e diversi tipi di pâté, nonché parecchie bottiglie di vino. Ci spiegarono che quelle erano riunioni abituali, occasioni per suonare, declamare poesie, leggere brani di narrativa, oppure discutere di cinema, di religione, di politica, o di altri argomenti. Per me fu una scoperta indimenticabile. Mangiammo e bevemmo fino ai primi rossori dell'aurora. Nicola si diverti moltissimo. Canto pure delle canzoni napoletane. Infine, a piedi, rientrammo in albergo quando stava per spuntare il sole. Presi per mano facemmo anche una corsa nella strada deserta, mentre la città era ancora avvolta nel sonno. Poi, camminando abbracciati per la vita, ci dirigemmo verso l'albergo. Sul selciato del lungosenna, l'eco dei nostri passi.