Il principio della domanda, che permea il processo civile, evidenzia che le parti hanno una funzione propulsiva in merito all'incedere della macchina giudiziaria; la cessazione della materia del contendere consacra inoltre la perdita di interesse nella res controversa e l'"arresto" del processo. Se tale struttura consente agli "attori" del processo di modularlo, dall'altro canto si impone alle parti medesime di allegare i fatti a fondamento delle proprie pretese e conseguentemente di dimostrarne la veridicità. Non sussiste invece un corrispettivo onere per quanto riguarda il diritto da applicare nel caso di specie: vale a dire che le parti indicano sotto l'egida di quali disposizioni normative vada ricondotta la fattispecie concreta ma ciò non esime il giudice dalla propria attività fisiologica di interpretazione, anche trascendendo la "ricostruzione" ermeneutica fatta dalle parti stesse. In questo senso può agganciarsi la pronuncia n. 26229/2019 della suprema Corte la quale statuisce una responsabilità ex art. 96 comma 3 c.p.c. nell'aver proposto un ricorso per cassazione facendo leva su una interpretazione distonica rispetto ai principi dell'ordinamento giuridico affermati in numerose pronunce giurisprudenziali.
Il caso originava da un'azione revocatoria intentata da una società dinnanzi al tribunale; erano state per l'esattezza convenute altre tre società e quattro fratelli. L'attrice sosteneva di essere creditrice di una delle suddette la quale era stata amministrata malamente dai summenzionati quattro fratelli (soci e amministratori). Sosteneva inoltre che una seconda società aveva proposto alla prima l'acquisto della relativa azienda e delle quote possedute da questa in un'altra società. Aggiungeva che in tale proposta d'acquisto erano compresi i crediti che la prima società vantava verso la partecipata e verso gli amministratori per la mala gestio; tutto ciò veniva poi corredato da una serie di garanzie. Secondo l'attrice le suddette operazioni erano un piano ordito per frodare le proprie ragioni in quanto nei fatti si sarebbe determinato uno svuotamento del patrimonio della prima società corrispondendo per contro un pagamento, dilazionato in tempi molto lunghi, non assistito da garanzie idonee. Veniva però rilevato da controparte che le proposte di acquisto, in particolar modo quelle ritenute fraudolente, erano state modificate e poste a fondamento di un concordato preventivo omologato da un altro tribunale; di tale accordo l'attrice in opportuna sede non aveva dimostrato alcuna doglianza. Se ne deduceva dunque la cessazione della materia del contendere che veniva dichiarata dal giudice di primo grado con contestuale condanna dell'attrice alla refusione delle spese processuali per soccombenza virtuale. L'attrice, soccombente anche in appello, proponeva ricorso lamentando l'erronea applicazione della legge: in realtà la proposta d'acquisto era irrevocabile ed andava inquadrata come atto dispositivo, inoltre la modifica della proposta era avvenuta solo dopo che il giudizio per la revocatoria era stato introitato e che il terzo acquirente era a conoscenza del danno che si sarebbe prodotto.
Per la Corte l'esperimento dell'azione pauliana richiede che in concreto vi sia stato un impoverimento. In realtà la proposta ha solo l'effetto di conferire all'altra parte il potere di accettarla o meno, essendo comunque necessario l'ulteriore omologa del tribunale. Aggiunge poi la Corte che è costante giurisprudenza ritenere che il concordato preventivo ha natura processuale sicché il creditore "danneggiato" non può opporsi agli effetti esperendo in un altro giudizio l'azione revocatoria. Trattasi di principi ben consolidati nella giurisprudenza di legittimità per cui il persistere in tesi opposte ravvisa solo una mancata diligenza nel rendersi conto dell'infondatezza della domanda.