Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 8707/2016, depositata il 3 maggio, occupandosi del caso di una lavoratrice che lamentava l´illegittimità del licenziamento irrogatole a seguito del superamento del periodo di comporto, di cui ha dovuto usufruire per curare una lunga malattia.
Quest´ultima aveva infatti lamentato che il datore di lavoro non aveva in alcun modo tentato di ricollocarla all´interno dell´azienda compatibilmente allo stato di salute della stessa.
La Suprema Corte precisa da subito come il licenziamento per superamento del periodo di comporto sia assimilabile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, diventando di fatto "impossibile" lo svolgimento della prestazione lavorativa da parte del lavoratore.
In tal senso il datore di lavoro, diversamente da quanto avviene ad esempio nel caso di licenziamento disciplinare, non è tenuto a fornire, così hanno stabilito i supremi giudici, alcuna specifica e dettagliata motivazione trattandosi di fatti ben conosciuti dalla lavoratrice avverso i quali non potrebbe dare alcuna giustificazione.
Il datore di lavoro può quindi limitarsi alla dimostrazione del superamento del periodo di comporto.
Gli Ermellini hanno precisato anche che dato il parallelismo col licenziamento per giustificato motivo oggettivo, andava rilevata la sussistenza dell´onere di repachage in capo al datore di lavoro.
Onere valutato dai Supremi Giudici nel caso di specie ma non sussistente nel caso "de quo" per mancanza oggettiva della possibilità d collocazione.
La Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso.
Quest´ultima aveva infatti lamentato che il datore di lavoro non aveva in alcun modo tentato di ricollocarla all´interno dell´azienda compatibilmente allo stato di salute della stessa.
La Suprema Corte precisa da subito come il licenziamento per superamento del periodo di comporto sia assimilabile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, diventando di fatto "impossibile" lo svolgimento della prestazione lavorativa da parte del lavoratore.
In tal senso il datore di lavoro, diversamente da quanto avviene ad esempio nel caso di licenziamento disciplinare, non è tenuto a fornire, così hanno stabilito i supremi giudici, alcuna specifica e dettagliata motivazione trattandosi di fatti ben conosciuti dalla lavoratrice avverso i quali non potrebbe dare alcuna giustificazione.
Il datore di lavoro può quindi limitarsi alla dimostrazione del superamento del periodo di comporto.
Gli Ermellini hanno precisato anche che dato il parallelismo col licenziamento per giustificato motivo oggettivo, andava rilevata la sussistenza dell´onere di repachage in capo al datore di lavoro.
Onere valutato dai Supremi Giudici nel caso di specie ma non sussistente nel caso "de quo" per mancanza oggettiva della possibilità d collocazione.
La Suprema Corte ha quindi rigettato il ricorso.
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