Di Redazione su Martedì, 01 Dicembre 2015
Categoria: Giurisprudenza Corte Costituzionale

Legge Severino, rigettate le questioni di costituzionalità (nota a Sentenza 19.11.2015, n. 236)

Con la fondamentale sentenza n. 236 del 2015 (pronunciata in esito all´udienza 20.10.2015) la Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lett. a) del decreto legislativo n. 235 del 2012 (cd. "Legge Severino") che dispone la sospensione di diritto dalle cariche per gli amministratori di enti locali che hanno riportato una condanna non definitiva per reati contro la P.A.
La questione di costituzionalità era stata sollevata dal TAR della Campania nel corso del giudizio promosso dal Sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, avverso il decreto di sospensione dalla carica emesso nei suoi confronti dal Prefetto di Napoli a seguito della condanna pronunciata in primo grado dal Tribunale di Roma per il reato di abuso d’ufficio; la condanna era successiva alla data di entrata in vigore della “Legge Severino”, ma si riferiva a fatti commessi in epoca anteriore.
Secondo il giudice rimettente l’incostituzionalità della disposizione si basava su due presupposti: la natura sanzionatoria della sospensione e l’efficacia retroattiva dell’istituto.
La Corte Costituzionale ha respinto ogni censura di incostituzionalità, rilevando che le misure che precludono il mantenimento di determinate cariche pubbliche in conseguenza di condanne penali non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento: non si tratta, osserva la Corte, «di “irrogare una sanzione graduabile in relazione alla diversa gravità dei reati, bensì di constatare che è venuto meno un requisito essenziale per continuare a ricoprire l’ufficio pubblico elettivo” (sentenza n. 295 del 1994), nell’ambito di quel potere di fissazione dei “requisiti” di eleggibilità, che l’art. 51, primo comma, della Costituzione riserva appunto al legislatore» (sentenza n. 25 del 2002). In sostanza il legislatore, operando le proprie valutazioni discrezionali, ha ritenuto che, in determinati casi, una condanna penale precluda il mantenimento della carica, dando luogo alla decadenza o alla sospensione da essa, a seconda che la condanna sia definitiva o non definitiva». Secondo la Consulta, inoltre, la sospensione dalla carica risponde ad esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica amministrazione presso cui il soggetto colpito presta servizio e costituisce misura sicuramente cautelare.
Sotto altro profilo, la Corte ha respinto anche le censure relative all’applicazione retroattiva della norma ai mandati in corso, osservando che di fronte a una grave situazione di illegalità nella pubblica amministrazione, non è irragionevole ritenere che una condanna (non definitiva) per determinati delitti contro la pubblica amministrazione susciti l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica. Ciò in quanto, la misura tende ad evitare un «inquinamento dell’amministrazione e a garantire la credibilità dell’amministrazione presso il pubblico, cioè il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, che può rischiare di essere incrinato dall’ombra gravante su di essa a causa dell’accusa da cui è colpita una persona attraverso la quale l’istituzione stessa opera». Tali esigenze sarebbero vanificate – nell’eminente valutazione della Consulta - se l’applicazione delle norme in questione dovesse essere riferita soltanto ai mandati successivi alla loro entrata in vigore. Nell’esercizio della sua discrezionalità, il legislatore ha ritenuto che una condanna per abuso d’ufficio faccia sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente l’eletto dalla carica, a tutela degli interessi sopra indicati. Il fatto che la norma renda applicabile la causa ostativa (condanna non definitiva per abuso d’ufficio) ai mandati in corso non è irragionevole; al contrario, osserva la Corte, anche l’applicazione immediata delle nuove cause ostative a chi sia stato eletto prima della sua entrata in vigore costituisce «ragionevole risposta all´esigenza alla quale la normativa stessa tende a corrispondere». Per questi motivi la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma censurata.