Arrivai al tribunale civile, in viale Giulio Cesare, con un anticipo spaventoso sull'orario di udienza, fissata per le nove e trenta.
Filippo, impegnato in Cassazione, mi aveva spedito a sostituirlo in una causa di risarcimento danni, intentata da una signora rimasta deturpata – così diceva lei – dopo un piccolo intervento chirurgico per l'asportazione di un neo.
Io odio il tribunale civile e Filippo lo sa. Nonostante questo, dimostrando alle volte una sorta di sadica perversione, mi supplica di andare a sostituirlo in udienza, ricattandomi in nome della nostra amicizia e riuscendo, sempre e senza eccezioni, a farmi sentire in colpa e, in questo subdolo modo, a fregarmi. E' sempre stato abilissimo a fregarmi. Ma gli voglio bene e non posso fare diversamente.
Passeggiai nervosamente davanti al portone d'ingresso, fermandomi di tanto in tanto a chiacchierare con qualche avvocato di mia conoscenza. Giusto un saluto distratto e via.
Varcato il portone d'ingresso, venni pervaso, come al solito, da una leggera, ma insistente sensazione di angoscia, penso a causa della mia ignoranza in materia civilistica.
Non faccio mai cose che non sono sicuro di saper fare più che bene. Filippo mi aveva assicurato che si sarebbe trattato soltanto di prendere la data di un rinvio, cioè di un'attività che sarebbe risultata facilissima anche per un gius-mentecatto.
Alle nove e venti, l'aula di udienza – anche se più che di aula sarebbe stato meglio parlare di stanza, anzi di stanzetta – era già piena come un uovo. C'era una puzza notevolissima, che si andava intensificando di minuto in minuto. Era come se fossimo stati rinchiusi in uno sgabuzzino pieno di sacchi della spazzatura. Ma era luglio inoltrato, faceva un caldo bestia e, quindi, dovevo fare buon viso a cattivo gioco.
Mi precipitai a recuperare il fascicolo relativo alla mia causa. Non lo trovai dove doveva stare e venni colto da un'ansia febbrile.
Poi scorsi un altro gruppetto di fascicoli appoggiati su un piccolo banco dall'altra parte dell'aula. Cercai di raggiungerlo, ostacolato, in alcuni casi volontariamente, da altri colleghi, che cercavano di fare altrettanto.
Sentii gli altri avvocati che chiamavano ad alta voce il nome della loro controparte. Alcuni lo gridavano.
Il giudice, che non sembrava affatto un giudice ma un magazziniere, era seduto dietro un banchetto del tipo di quelli che usavamo alle scuole medie. Era letteralmente assediato da un nugolo di avvocati che gli sottoponevano questioni ed eccezioni di cui lui, con lampante evidenza, non conosceva una benemerita mazza. Si vedeva lontano un chilometro che non attendeva nient'altro che potersi "riservare" sulle deduzioni sollevate, cioè, in altre parole, nascondere il fascicolo in cancelleria, anzi seppellircelo, aspettando con virile fermezza che le parti morissero, ammazzate o di morte naturale non aveva alcuna importanza. C'erano giudici, che dopo cinque anni, ancora dovevano sciogliere le loro "riserve".
Questa è, più o meno, la Giustizia Civile, con la G e la C maiuscole.
Recuperai il fascicolo e mi diressi in tutta fretta verso il "mucchio".
Il cosiddetto "mucchio" è la pila di fascicoli che si forma man mano che gli avvocati vi appoggiano sopra, anzi sotto, il loro. In sostanza, in assenza di qualsivoglia regola, come nel vecchio West insomma, il primo che arriva si prende il proprio fascicolo e lo appoggia sul banchetto del giudice. Il secondo arrivato mette il suo fascicolo sotto quello del collega e così via, fino a formare il "mucchio", che stabilisce ovviamente anche l'ordine di chiamata della propria causa.
E' quindi molto importante riuscire a mettere il proprio fascicolo sopra quello degli altri e, per raggiungere questo scopo, sono in molti a commettere le peggiori nefandezze, o comunque a cercare di farlo.
Ad esempio, mentre aspettavo rassegnato che arrivasse il mio turno, vidi un avvocato che da qualche minuto stava pericolosamente ronzando intorno al "mucchio". Dimostrava sui centoquindici anni, ma, dietro la maschera da rincoglionito che si era furbescamente cucita addosso, si nascondeva un volpone di prima categoria.
L'avevo sgamato subito. Noi avvocati impariamo immediatamente a riconoscerli i tipi così: sviluppiamo una specie di sesto senso per queste cose. E' l'istinto di sopravvivenza. E il vecchione aveva la caratteristica espressione, sia pure abilmente mascherata, da granfijodenamignotta.
Meglio stare all'erta.
Lo guardai sinceramente ammirato. Era un vero maestro.
Con la scusa di controllare le carte della sua causa, si era già inchiappettato sei avvocati, facendo scivolare il suo fascicolo dal decimo al quarto posto. Stava rapidissimamente scalando la classifica, ma si vedeva che ancora non gli bastava. Voleva di più. Se qualcuno non lo avesse fermato, sarebbe presto diventato medaglia d'argento, perché era troppo furbo per arrivare primo. Sarebbe stato inelegante.
Un giovane avvocato si era accorto della mossa e gli aveva rivolto un timido appunto. Il vegliardo aveva sfoderato un sorriso incartapecorito e confuso, chiedendo scusa per l'involontario errore. Involontario un par di palle. Comunque non aveva spostato il suo fascicolo, inchiappettandosi bellamente e con il sorriso sulle labbra anche il collega che lo aveva ripreso, che, in via del tutto eccezionale, aveva evidentemente rinunciato a sollevare obiezioni.
Ero nauseato. Dall'odore innanzitutto. Ma anche da quello che vedevo.
E quella sarebbe stata Giustizia? Cause che duravano decenni, appelli fissati dopo un secolo, controversie che si risolvevano quando le parti forse non ricordavano nemmeno più per quale motivo avevano cominciato a litigare.
Non era facile stabilire di chi fosse la colpa di quello sfascio.
Forse di tutti, o forse di nessuno in particolare. Era arduo anche cominciare soltanto a parlarne. Ciò che è certo era che nessuno ci guadagnava da questa situazione. Io no di sicuro.
Al mio ritorno in studio, avrei dovuto dire un paio di paroline al mio amico Filippo. Se mi avesse voluto veramente bene, non mi avrebbe mai mandato a sostituirlo in questa gabbia di matti.