Di Rosalia Ruggieri su Giovedì, 04 Luglio 2019
Categoria: Legge e Diritto

Infermieri, SC: “Il tempo per il cambio camice va retribuito”

Con la pronuncia n. 17635 dello scorso 1 luglio, la sezione lavoro della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul diritto di taluni infermieri di ottenere il diritto alla retribuzione del tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa, ha accolto le loro istanze specificando che "le attività di vestizione/svestizione – attenendo ad obblighi imposti dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto – costituiscono comportamenti integrativi dell'obbligazione principale e sono funzionali al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria: in tale veste, tali attività devono ritenersi implicitamente autorizzate da parte dell'Azienda stessa e, anche nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa, danno diritto alla retribuzione".

Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dalla richiesta di alcuni infermieri, dipendenti di un ospedale pubblico, di veder loro riconosciuto il diritto alla retribuzione del tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa, trattandosi di attività obbligatoria, accessoria e propedeutica alla prestazione di lavoro.

Sia il Tribunale di Chieti che la Corte di Appello di L'Aquila accoglievano la domanda attorea, sul presupposto che, per motivi di igiene, il personale infermieristico doveva necessariamente indossare e dismettere la divisa di lavoro (nella specie, il camice e la mascherina protettiva) negli stessi ambienti dell'Azienda prima dell'entrata e dopo l'uscita dai relativi reparti, non potendo tale incombenza essere svolta presso le proprie abitazioni. 

A tale decisione i giudici di merito erano giunti richiamando la giurisprudenza secondo cui se la scelta del tempo e del luogo per indossare la divisa è diretta dal datore di lavoro, che ne le modalità, la relativa attività rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito; diversamente, qualora sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo per indossare la divisa (e quindi anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa e, come tale, non deve essere retribuita.

Pertanto – sul presupposto che l'attività in questione, volta al cambio divisa, fosse eterodiretta dal datore di lavoro, che ben poteva rifiutare la prestazione se non attuata con il camice sanitario – la Corte di merito qualificava il tempo impiegato per il cambio come strettamente funzionale all'esecuzione della prestazione lavorativa e pertanto meritevole di retribuzione.

L'ASL, ricorrendo in Cassazione, censurava la sentenza impugnata per aver qualificato il tempo occorrente per la vestizione come strettamente funzionale all'esecuzione della prestazione e costituente corretto adempimento di un obbligo nascente dal rapporto di lavoro.

A tal fine, rilevava come si fossero mal applicati i principi in ordine alla eterodirezione della prestazione di vestizione e svestizione preparatoria dell'adempimento della prestazione lavorativa, giacché l'azienda sanitaria non aveva mai imposto ai lavoratori determinate e specifiche modalità e/o tempistiche per effettuare il cambio di camice.

In subordine rilevava come siffatta attività – anche a volerla considerare quale attività aggiuntiva – doveva, di fatto, essere qualificata come lavoro straordinario, in quanto eccedente l'orario ordinario previsto dal contratto collettivo e, in quanto tale, soggetto a specifica autorizzazione, nella specie mancante.

La Cassazione non condivide le censure formulate. 

Gli Ermellini evidenziano come, in ambito sanitario,le attività di vestizione/svestizione – attenendo ad obblighi imposti dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto – costituiscono comportamenti integrativi dell'obbligazione principale e sono funzionali al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria: in tale veste, tali attività devono ritenersi implicitamente autorizzate da parte dell'Azienda stessa e, anche nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa, danno diritto alla retribuzione.

La sentenza in commento specifica, inoltre, che l'eterodirezione, oltre che derivare dall'esplicita disciplina d'impresa, ben può risultare implicitamente dalla natura degli indumenti (quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell'abbigliamento) o dalla specifica funzione che devono assolvere o dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto: a prescindere dall'inclusione in una o nell'altra categoria, la giurisprudenza di legittimità, conformemente agli indirizzi della giurisprudenza comunitaria, è saldamente ancorata al riconoscimento dell'attività di vestizione/svestizione degli infermieri come rientrante nell'orario di lavoro e da retribuire autonomamente, qualora sia stata effettuata prima dell'inizio e dopo la fine del turno.

In relazione al specifico caso di specie, gli infermieri hanno posto in essere una attività svolta nell'interesse del servizio pubblico e a tutela dell'incolumità del personale addetto e che, pertanto, deve ritenersi implicitamente autorizzate dall'Azienda. Poco rileva, allora, che siffatta operazione sia o meno presa in considerazione dalle norme di legge e di contratto collettivo, relative alla disciplina del lavoro straordinario: quando una attività è imposta da superiori esigenze di igiene, l'Azienda ben potrebbe rifiutare di ricevere la prestazione, sicché dette attività rientrano a pieno diritto all'interno del debito orario di lavoro.

In conclusione, la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. 

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