Di Rosalia Ruggieri su Mercoledì, 21 Ottobre 2020
Categoria: Famiglia e Conflitti

Infedeltà persistente della moglie: non sufficiente per l’addebito, se anche il marito ha violato i doveri coniugali

Con l'ordinanza n. 22266 dello scorso 15 ottobre, la VI sezione civile della Corte di Cassazione ha rigettato la richiesta di addebito di una separazione proposta da un marito per la palese e persistente infedeltà della moglie, ricordando che, quando sono entrambi i coniugi a richiedere la pronuncia di addebito, quest'ultima non può fondarsi sulla mera violazione degli obblighi coniugali, essendo necessario accertare il nesso eziologico tra la condotta violativa e il fallimento della convivenza coniugale.

Sul merito della questione aveva statuito, inizialmente, il Tribunale di Salerno che, pronunciandosi sulla separazione personale dei coniugi, rigettava le reciproche domande di addebito avanzate dall'ex coppia.

Il marito, appellando la sentenza dinanzi alla Corte di appello di Salerno, chiedeva la pronuncia di addebito della separazione a carico della moglie, in ragione della sua palese e persistente infedeltà, che aveva determinato l'intollerabilità della convivenza.

La Corte d'appello, rigettando il gravame del marito, confermava le statuizioni relative all'addebito, ritenendo che la pronuncia di addebito, richiesta da entrambi i coniugi, non potesse fondarsi sulla mera violazione degli obblighi coniugali, essendo necessario accertare il nesso eziologico tra la condotta violativa e il fallimento della convivenza coniugale. 

 Il marito, ricorrendo in Cassazione, denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 143 e 151 c.c., censurando la sentenza per non aver riconosciuto l'addebito della separazione a carico della moglie.

A tal riguardo, il ricorrente evidenziava come la persistenza della relazione extraconiugale della moglie avrebbe giustificato la pronuncia di addebito, posto che, ai sensi e per gli effetti dell'art. 151 c.c., la separazione può essere chiesta quando si verificano fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare pregiudizio alla prole, indipendentemente dalla volontà di uno o entrambi i coniugi.

In seconda istanza rilevava come la Corte territoriale avesse errato nel non prendere in debita considerazione alcuni elementi tali da rendere addebitabile la fine dell'unione esclusivamente al comportamento della donna.

Deduceva, infatti, come non si fossero considerati i messaggi pubblicati dalla donna sui social network, nei quali si dichiarava disponibile a incontri amorosi che, di fatto, si erano reiterati negli anni, come accertato dalla relazione investigativa: la sentenza impugnata, omettendo di valutare siffatte prove, aveva erroneamente escluso che l'infedeltà dimostrata potesse essere la causa dell'intollerabilità della convivenza.

 La Cassazione non condivide le tesi difensive del ricorrente.

Sul punto, gli Ermellini rilevano come l'uomo imputi ai giudici d'appello di non aver considerato alcuni elementi a suo dire decisivi ai fini della pronuncia di addebito; alla luce di tanto le doglianze prospettate risultano inammissibili in quanto le stesse – risolvendosi nella sollecitazione di un nuovo accertamento di merito sui presupposti della pronuncia di addebito – impongono l'esecuzione di un nuovo accertamento di fatto precluso in sede di legittimità.

Difatti, l'apprezzamento circa la responsabilità di un coniuge nel determinarsi della intollerabilità della convivenza in ragione della violazione dei doveri matrimoniali è istituzionalmente riservato al giudice di merito e non può essere censurato in sede di legittimità in presenza di motivazione congrua e logica.

La sentenza di appello motivata ha specificamente e dettagliatamente preso in considerazione le reciproche condotte tenute dagli ex coniugi, giungendo alla conclusione che le stesse reciprocamente perdevano di rilevanza in ordine all'incidenza causale sull'insorgenza dell'intollerabilità della vita coniugale.

In conclusione, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità e al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

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