Uscii da Regina Coeli sotto una leggera e insistente pioggerellina primaverile, di quelle che ti fanno subito pensare all'imminente arrivo delle prime rondini e al prossimo dischiudersi dei fiori. E che spaccano le scatole a chi come me è costretto a muoversi per la città su due ruote.
Recuperai la Vespa che avevo parcheggiato sul lungotevere di fronte al carcere e, imprecando sottovoce, ripulii con un fazzoletto il parabrezza dalle numerose cacatine di uccello, forse proprio rondini, che l'avevano devastato. La cosa strana era che il sellino e il resto dello scooter erano stati miracolosamente risparmiati dal bombardamento dei maledetti pennuti.
Guidando con una certa prudenza, dato che non cambiavo gli pneumatici dai tempi del pleistocene e consapevole di come bastasse un sottilissimo strato d'acqua per rendere le strade di Roma trappole micidiali, percorsi il lungotevere, esibendomi in una gimcana da applausi tra le auto incolonnate, salutai, come facevo spesso, l'arcangelo Michele, che torreggiava maestoso dalla cima di Castel Sant'Angelo, rinfoderando la spada con cui aveva ricacciato all'inferno le armate di Lucifero, e attraversai piazza Risorgimento, dove cominciava la fila per l'ingresso ai Musei Vaticani.
Come sempre, senza eccezione, mi meravigliai per l'enorme numero di turisti, molti dei quali vestiti come se vi fossero stati trenta gradi all'ombra, che attendevano pazienti sotto il freddo e la pioggia di poter entrare per ammirare i capolavori custoditi nel museo. Quelle persone avrebbero dovuto aspettare per ore prima di poter vedere, in fretta e furia, una serie di sale piene di tesori d'arte, la cui esplorazione avrebbe richiesto intere giornate, se non addirittura settimane.
Mi chiesi cosa li spingesse a farlo. È uno dei miei tanti limiti: ritengo sia inutile fare una cosa tanto per farla, anzi tanto per poter dire di averla fatta. Ma, d'altra parte, anch'io, che sono tanto bravo a pontificare e criticare, quando avevo visitato Parigi, pur di vedere a tutti i costi il Louvre, mi ero sottoposto a una vera e propria tortura, fatta di lunghe attese in fila e di estenuanti maratone all'interno delle sale del museo, senza peraltro capire quasi nulla di quanto stavo vedendo. Però, tornato a casa, avevo potuto dire di essere stato al Louvre. Sarebbe stato più onesto evitare di scandalizzarsi troppo e di compatire, con aria di superiorità che non mi potevo certo permettere, quella folla di poveretti che, come tanti soldatini ordinati, s'infradiciavano in attesa di rimpinguare le casse del Vaticano.
Dopo altri dieci minuti di traffico, arrivai sano e salvo a piazzale Clodio, sede della cosiddetta Città Giudiziaria.
Lo sgraziato, tetro e informe agglomerato di edifici in cui aveva sede la quasi totalità degli uffici penali mi apparve davanti in tutta la sua statuaria e incommensurabile bruttezza. Quel luogo sembrava essere stato progettato apposta per incutere soggezione a chi, per un qualsiasi motivo, era costretto a mettervi piede.
Avevo appuntamento con Patrizia verso mezzogiorno in sala avvocati. Insieme avremmo dovuto recarci nella cancelleria della quarta sezione del Tribunale, per visionare il fascicolo relativo a un'udienza che si sarebbe tenuta la settimana successiva. All'inizio della nostra collaborazione professionale, Patrizia si sarebbe limitata a chiedere copia di tutto il fascicolo, per non perdere tempo. Soltanto dopo innumerevoli insistenze, ero riuscito a convincerla che – come mi aveva ripetuto settecento volte al giorno il mio odiato maestro, l'ultra novantenne ma ancora arzillo Emiliano Benelli – i fascicoli processuali andavano studiati prima in cancelleria e poi in studio. Questo avrebbe comportato una minore spesa economica, dato che si evitava di pagare marche da bollo per copie inutili, doppioni e via discorrendo – e questo era il motivo principale delle reprimende di Benelli, nonché delle mie – e avrebbe consentito un proficuo esame preliminare del processo.
Stavo attraversando il cortile che si apriva davanti all'edificio principale, quando vidi venirmi incontro l'avvocato Luigi Alegretti, accompagnato da una raffinata pseudomodella bruno-corvina stile sciampista-però-seria-che-sembra-na-mignotta-però-te-stai-a-sbajà, che con ogni probabilità doveva essere la sua collaboratrice o la sua amante o, con ancor maggiore probabilità, entrambe le cose. Era vestita in modo elegante, truccatissima, ed era anche molto carina, a dire il vero. L'unica pecca, se di pecca si può parlare, era l'altezza, dato che di sicuro non superava i centoquaranta centimetri. In pratica, era una semi-nana su tacchi vertiginosi.
Luigi era noto nell'ambiente forense come er capoccione ed era uno degli avvocati più simpatici che ci fossero in giro.
Sul suo soprannome circolavano due diverse teorie.
Alcuni sostenevano che il nomignolo fosse dovuto al grosso testone, dalle sembianze di un gigantesco cocomero, che l'avvocato Alegretti aveva attaccato sul collo, anzi direttamente sul busto, dato che nella sua fisionomia non v'era alcuna traccia di collo. Altri invece ritenevano che il soprannome fosse dovuto alla sua notevole intelligenza, al grosso cervello insomma, da cui il nomignolo "capoccione", come sinonimo di "cervellone." La seconda tesi era nettamente minoritaria, visto che Alegretti aveva davvero la testa delle dimensioni di una mongolfiera e che in genere non perdeva occasione di dimostrare al mondo intero di non capire una benemerita mazza di questioni giuridiche. Avevo sentito Luigi discutere una decina di cause e ogni volta avevo provato una sensazione di fanciullesco stupore di fronte alla sua straordinaria capacità di fare a pezzi la normativa penale.
Qualche collega, per tagliare la testa al toro, aveva deciso di ribattezzarlo er mongolfiera, per evitare fastidiosi equivoci terminologici e per troncare una volta per tutte quelle sottili e defatiganti dispute semantico-etimologiche.
"Alessa', che stai a fa'?", esclamò Luigi non appena fu a portata di voce, cioè urlando da cinquanta metri di distanza.
"Me sto a fa' i cazzi miei!", mi affiorò automaticamente sulle labbra, ma optai per un più diplomatico "Ho appuntamento con Patrizia", accorgendomi con colpevole ritardo di avergli fornito lo spunto per la sua infinita serie di battute che ogni volta mi propinava circa una presunta storia sentimentale con la mia bella sostituta.
"Ahò, a Cacadubbi, ma dimme 'a verità..." – mi sussurrò Luigi con fare cospiratorio quando fu a circa mezzo centimetro di distanza, incollato al mio orecchio – "Ma com'è a letto quella gran gnocca de Patrizia?"
"Ma quante volte te lo devo dire che tra me e Patrizia non c'è niente?", dissi con un sorriso forse troppo ambiguo.
Nel frattempo, durante il nostro breve scambio di battute tra uomini, la sua accompagnatrice, non nel senso di escort è ovvio, si era posizionata un po' in
disparte, scura in volto, dato che quelli trattati erano argomenti da depravati, che lei era costretta ad ascoltare ma che tuttavia non condivideva, da perfetta sciampista-però-seria.
Luigi, alla mia risposta scontata fece un cenno del capo come a dire "Seeee, ma che stai a di'!", ma preferì non insistere e si allontanò, dopo avermi mollato una pacca a mo' di saluto, in compagnia dell'elegantissima e all'apparenza molto austera micro-modella.
Li vidi allontanarsi mentre parlottavano fittamente, lui ridendo, lei invece molto accigliata, quasi inquieta, per non dire incazzata. Immaginai – ma le mie erano soltanto malevole illazioni – che stessero discutendo su quando Luigi si sarebbe deciso, una volta per tutte, a distruggere la famiglia, lasciando la moglie e i tre figli per coronare il suo vero sogno d'amore, che – è inutile dirlo – aveva come protagonista femminile la sua serissima e correttissima collaboratrice.