Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sez. Lav. , con Sentenza n. 24122/2016, con la quale, trattando il caso di una dipendente bancaria dimissionaria, è stato confermato quanto stabilito dai Giudici nei primi due gradi di giudizio, e le dimissioni rassegnate ritenute del tutto valide.
La questione
Il caso culminato nella Sentenza della Corte di legittimità aveva tratto origine dalla pronuncia della Corte d´appello di Bologna, con cui era stata confermata quella resa dal Tribunale della stessa sede, con cui era stata respinta la domanda proposta da una bancaria nei confronti dell´istituto di credito datore di lavoro, diretta a conseguire l´annullamento delle dimissioni dalla prima rassegnate.
La Corte distrettuale, a fondamento del decisum ed in estrema sintesi, aveva sottolineato l´insussistenza dei presupposti di annullabilità dell´atto ex art.428 c.p.c., non essendo state allegate né dimostrate situazioni abnormi, tali da determinare un parziale annullamento della capacità di intendere e di volere della lavoratrice al momento della sottoscrizione dell´atto unilaterale di natura solutoria. Ciò, in quanto, secondo l´opinione della Corte di merito, sarebbe stato necessario il riscontro di "qualche elemento ulteriore, qualche indizio specifico, legato a reazioni abnormi e realmente inspiegabili, nel caso di specie non allegate né dimostrate".
Da qui il ricorso in Cassazione da parte della dipendente, che tuttavia non è stato ritenuto suscettibile di favorevole delibazione da parte del giudice di legittimità.
La pronuncia della Corte
L´accertamento di merito compiuto dal giudice del grado è risultato conforme, secondo il Collegio di Piazza Cavour, al principio più volte affermato dalla Corte di Cassazione alla cui stregua "perché l´incapacità naturale del dipendente possa rilevare come causa di annullamento delle sue dimissioni, non è necessario che si abbia la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, ma è sufficiente che tali facoltà risultino diminuite in modo tale da impedire od ostacolare una seria valutazione dell´atto e la formazione di una volontà cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all´atto che sta per compiere; la valutazione in ordine alla gravità della diminuzione di tali capacità è riservata al giudice di merito e non è censurabile in Cassazione se adeguatamente motivata".
Sotto altro versante, i giudici dell´impugnazione hanno negato la sussistenza dei presupposti per l´annullamento delle dimissioni per violenza morale, valutando la gravità del comportamento assunto dalla ricorrente, come delineato alla luce del compendio istruttorio acquisito, e ritenendolo idoneo a giustificare l´applicazione della massima sanzione disciplinare.
Era emerso, ex actis, che essa non aveva rispettato, di fronte alle irregolarità contabili commesse dal collega C., le norme operative che le imponevano di segnalare gli ammanchi di cassa, e di aver pertanto, violato i propri doveri di ufficio dimostrando di non possedere la necessaria professionalità per svolgere l´incarico affidatole.
La Corte ha quindi proceduto ad uno scrutinio circa l´idoneità delle mancanze ascritte alla lavoratrice a scuotere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, particolarmente stringente nel settore bancario, pervenendo ad una conclusione positiva al riguardo, stante la gravità della condotta posta in essere dalla ricorrente.
Le conclusioni cui sono pervenuti gli Ermellini sono state peraltro coerenti con i "dicta" giurisprudenziali del Supremo Collegio, secondo cui la minaccia di far valere un diritto assume i caratteri della violenza morale, invalidante il consenso prestato per la stipulazione del contratto, ai sensi dell´art. 1438 c.c., soltanto se è diretta a conseguire un vantaggio ingiusto, situazione che si verifica quando il fine ultimo perseguito consista nella realizzazione di un risultato che, oltre ad essere abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l´esercizio del diritto medesimo, sia iniquo ed esorbiti dall´oggetto di quest´ultimo, e non quando il vantaggio perseguito sia solo quello del soddisfacimento del diritto nei modi previsti dall´ordinamento.
In definitiva, l´approdo cui è pervenuto il giudice del gravame, conforme ai principi sopra richiamati e sorretto da congrua motivazione, ha resistito alle censure della ricorrente e, di conseguenza, il ricorso è stato respinto.
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