Di Redazione su Venerdì, 12 Aprile 2019
Categoria: Mario Squinzati, avvocato all'ombra della colpa (Alberto Pezzini) - Diritto e Letteratura

L'ombra della Colpa - Il processo penale, tutto corre sul filo dei rinvii

 Naturalmente è Agata. So già che sarà qualche rottura. Ultimamente tutte le notizie buone me le dà lei. Al telefono. Dico, non si può aspettare che un cristo torni in studio per inquinargli la giornata ?

- Dimmi.

- Mario, è arrivata la comunicazione dell'Ordine. Ti devi presentare dopodomani con un difensore. Ho già avvertito Massimo ma mi ha detto che non può venire. Ha detto che non c'è problema, che posso sostituirlo io, tanto sospenderanno il procedimento in attesa di quello penale. Va bene per te ?

E cosa vuoi che risponda, amica mia ? Penso tra me e me. Ormai devo prenderla come viene, ogni giorno. Cinque minuti fa stavo dormendo sereno e ora il mio risveglio è da incubo.

Dacci oggi la nostra croce quotidiana. Gabriele D'Annunzio scriveva nulla dies sine ictu per significare che nessun giorno della sua vita doveva trascorrere sulla terra senza che si prendesse una gioia da una delle sue amanti. Io potrei coniare un nuovo motto dove nessun giorno non possa salutarmi senza la giusta pena quotidiana. Devo rassegnarmi a che il mio tempo venga scandito dapassaggi così in questo periodo.

- A parte che mi hai rovinato il pomeriggio, certo che mi va bene. Meno male che ci sei tu.

Mi scappa pure detto. Altrimenti avrei dovuto reclutare un altro collega all'impronta e spiegargli tutta la manfrina della mia cazzata professionale. Non potevi aspettare che arrivassi in studio per dirmi tutto questo – sto per dirle -ma capisco che ha fretta di aiutarmi. Taccio e la saluto al telefono. Guardo fuori dalla finestra e mi domando perché questo capiti a me. Mi sforzo di individuare una spiegazione razionale dalla quale attingere la forza per andare avanti. Si chiama resilienza, o almeno così la definiscono gli psicologi. E' quel tipo di resistenza e capacità di assorbimento grazie alla quale si metabolizza tutto il crudo che la vita ti riserva. Sono giorni che ci penso. L'unico vantaggio è che la mia sensibilità professionale ne uscirà affinata. Sentire da imputato – per un avvocato difensore – è come per il pescatore indovinare le onde meglio del pesce.

Non potranno più dirmi lei non sa come mi sento. Di certo, non potrò rispondergli come vorrei. Non potrò dire che anch'io conosco l'altro lato della medaglia. Quello delle notti consumate a guardare il soffitto ed a rigirarsi nel letto, senza chiudere occhio, avvolti in pensieri che stringono come corde. Non ambivo ad acuire la mia sensibilità professionale così. Ho sempre pensato che ce l'hai oppure no. E' un po' come i corsi di scrittura creativa. Ci si iscrive pensando di imparare a scrivere. Paghi e diventi uno scrittore. Ma leggi i classici, che cavolo. E' così e indietro non si torna. Esco di casa.

L'unica cosa che mi salva in questo periodo è la mia capacità – non sapevo di averla – di scindere in due parti la mia vita. I momenti in cui il processo si avvicina sono i più bui, dove le onde della disperazione sai perfino che faccia hanno. Gli altri giorni,quando le udienze sono lontane, restano quelli in cui vivo e non avverto la paura o il freddo. La mia testa obbedisce ad un meccanismo preciso come un orologio a cucù svizzero. E' come se staccassi l'interruttore. Questa capacità inaspettata mi aiuta a vivere la condizione di imputato con una marcia in più. Il processo penale non è soltanto lungo e faticoso, ma fratello e sorella delle malattie. Fisiche e dell'anima.

Una maledetta coperta fatta di cocci aguzzi di bottiglia sempre troppo lunga.

 Sono tornato a camminare. Mi rifiuto di tornare in studio, oggi. Qui, a Sanremo, abbiamo scorci magnifici. Sono vicino alla villa di Italo Calvino, da dove si vede il mare splendere al sole. La Madonna della Costa è bianca, accecante. Oggi è una bella giornata di ottobre. Il cielo è uno smalto lucido ed io cammino in salita. E' l'unico modo per ammazzare i miei pensieri, non farli salire a galla. Più è faticosa la salita, più non penso. La mia mente si ripulisce, come in lavatrice. Senza movimenti bruschi. Camminare è un toccasana, e non solo fisico. Soffro di emorroidi. Se non cammino, ho problemi. Sanguino. Stare ore su oresu una sedia,come uno stilita delle chiappe, non è salutare. E' un delirio delle vertebre e della circolazione che ristagna. Camminare fa ripartire tutto il metabolismo. Sprigiona una dose di energia che non capisco da dove arrivi. Forse da qualche fiume carsico dentro di noi, che scorre in mezzo alle piastrine ed ai globuli rossi. Camminare mi permette di ricreare il mio equilibrio interiore. Domani è il gran giorno. Devo presentarmi al Consiglio. Agata mi farà da difensore. Non posso ambire di più. Mi vuole bene e so che mi difenderà come si deve. Anche se si tratta di un'udienza interlocutoria in cui non verrà neanche il PM. O forse si. Non ho ancora capito. Quello che mi fa più paura di questa storia, che mi raggela il sangue, è la possibilità di subire contraccolpi nel mio lavoro. Temo più una sospensione di una condanna penale. Una volta un mio collega mi disse che un avvocato sospeso non è più lo stesso. Lo credo anch'io, tutto sommato. Un provvedimento simile può arrestare il moto delle maree personali di ciascuno di noi. Ti tengono fermo ed ai clienti cosa racconti ? Non posso difenderla perché mi hanno sospeso? Sarebbe vergognoso, infamante. E come vivrei in quei momenti, di cosa camperei ? Ernest Hemingway, in Morte nel pomeriggio, scrive che prima o poi, ogni grande torero è destinato ad essere incornato da un toro, dal suo toro. Ciò che succede dopo l'incornata fa la differenza. Un torero è davvero grande soprattutto se sa sconfiggere la paura che lo attanaglia dopo una ferita che non è come le altre. E' molto più di una semplice lacerazione dei tessuti.

Così è per noi.

Spero di non venire infilzato, in un modo tanto sciocco. Sarebbe una caduta davvero goffa. Per me, che mi sono sempre considerato un gatto da tribunale. Sto scendendo verso casa. La mia camminata sta per terminare. Ho la maglia zuppa. Il cielo è limpido ma l'umidità nell'aria è altissima. Oggi ho fatto due camminate e la mia mente è sgombra come un cielo di marzo. Quando arrivo e mi tolgo i vestiti fradici, sento che – ad un certo punto, quando tutto congiura contro e il mare diventa troppo alto per nuotarci dentro – conviene lasciare andare il nostro veliero. Anche da solo. Qualcosa cambierà, che cazzo.

Non può mica piovere sempre, come dice Agata.

 Siamo qui, in corridoio. Aspettiamo che ci chiamino. A quanto pare non sono l'unico in attesa di un'udienza disciplinare. Ci sono numerosi colleghi che attendono come me. E' una mattinata convulsa. Agata indossa un tailleur fumo di Londra. Io un completo scuro con una cravatta di Marinella azzurra come Napoli. Mi porta fortuna. Si apre una porta e scandiscono il mio nome. Entriamo e li vedo tutti seduti, come alla tavola rotonda. Biascico un buongiorno tra i denti mentre Agata sciorina il suo sorriso migliore. Procede tutto veloce. Non vedo il Pm. Tutto sommato, mi rilasso. Anche se avverto la tensione che mi stringe i muscoli come una mano sotto i vestiti. Leggono il mio capo d'imputazione. Lo compita con calma il mio relatore il quale è sintetico anche se si sofferma per un istante sul fatto che non abbia risposto all'interrogatorio avvalendomi della facoltà di non rispondere. Questo – dice – non ci ha permesso di conoscere la versione del collega. E poi va avanti. Non muovo un muscolo. Sono di pietra, in questo consesso. Non voglio far trapelare un'ombra delle mie emozioni. Terminata la relazione viene data la parola ad Agata che chiede la sospensione del procedimento disciplinare in attesa della celebrazione di quello penale.

Il Presidente dichiara a verbale che il procedimento disciplinare resta sospeso. Mi salutano tutti e sorridono. Ricambio il saluto. Usciamo con calma. Fuori ho il tempo di espirare finalmente. Mi sento liberato da un peso, anche se è tutto rinviato. Nei procedimenti penali tutto corre sul filo dei rinvii. Si respira e si vive a seconda delle udienze. È una vita sincopata, come una musica jazz, tutta picchi e depressioni. Telefoniamo a Massimo per comunicargli la sospensione. Dice che è tutto a posto, si va avanti verso l'assoluzione. Quando chiudo la telefonata chiedo ad Agata se sia realistico pensare ad una assoluzione, e la prego di dirmi la verità, o almeno quella che pensa veramente.

Anche lei ci crede, mentre io proprio no. Usciamo dal Tribunale e ci fermiamo ad un bar sulla passeggiata a mare. Beviamo un caffè; mi slaccio la cravatta. Agata si toglie la giacca del tailleur perché continua a fare caldo. E' un ottobre in cui dovrebbero già comparire le prime castagne verso San Romolo mentre continuiamo ad avere un basilico estivo ed anche le notti mostrano stellate da cielo agostano. Quando si leva la giacca, vedo che sotto le ascelle ha due chiazze di sudore. Ha sudato come me, per la tensione, quella che fai finta non ci sia ma penetra attraverso i tessuti. Povera ragazza. Non mostra mai nulla ma forse questa storia sta logorando, quantomeno provando, anche lei. Eppure non mi fa mai vedere il minimo segno di cedimento, o di paura, e magari ne ha più di me. Forse è ora di piantarla di piangermi addosso. E' ora di mostrare un po' le palle ed affrontare con dignità, l'unica vera arma che la vita ci consenta in ogni situazione, questo snodo della mia, di vita. Non voglio farmi vedere in difficoltà, da nessuno, in questo momento. Neanche da Agata. Stiamo un'ora al sole, al bar, mentre il mare luccica in lontananza. E' un'ottobrata e siamo consapevoli che ci siamo guadagnati questa pausa caffè più lunga del solito. Ci alziamo soltanto quando le macchie di sudore non si vedono più ed i nostri vestiti si sono asciugati all'aria aperta, sotto questo cielo senza neanche una nuvola a rigarlo.

Abbiamo espulso tutte le tossine.

Andiamo via, Agata.

Andiamo a lavorare.

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