Di Redazione su Venerdì, 15 Novembre 2019
Categoria: Maestri e Testimoni: nomi e storie da ricordare

5 aprile 1588, nascono Hobbes e il Leviatano

Thomas Hobbes (Westport, 5 aprile 1588Hardwick Hall, 4 dicembre 1679) è stato un filosofo e matematico britannico, sostenitore del giusnaturalismo e autore nel 1651 dell'opera di filosofia politica LeviatanoOltre che di teoria politica si interessò e scrisse anche di storia, geometria, etica ed economia.

La descrizione di Hobbes della natura umana come sostanzialmente competitiva ed egoista, esemplificata dalle frasi Bellum omnium contra omnes ("la guerra di tutti contro tutti" nello stato di natura) e Homo homini lupus ("ogni uomo è lupo per l'altro uomo"), ha trovato riscontro nel campo dell'antropologia politica.

Con Hobbes, che viaggiò a lungo nel continente, la nuova cultura filosofica europea culminante con il razionalismo cartesiano entrò in contatto con la corrente empirista e logico nominalistica della tradizione inglese che si ritrovava ad esempio in Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone, Guglielmo di Ockham ecc. Ne derivò il tentativo di una sintesi tra il metodo deduttivo-matematico-geometrico del razionalismo europeo e il metodo induttivo dell'empirismo inglese, cercando di attuare un collegamento tra nominalismo logico e realismo metafisico.

Questo il quadro filosofico che portò Hobbes a costruire un sistema (uno schema, una cornice entro la quale trovi spiegazione ogni minimo aspetto della realtà) materialistico, meccanicistico (partendo da elementi primi semplici e procedendo per successive composizioni, in un rapporto meccanico di causa effetto) onnicomprensivo (che spieghi ogni fenomeno sia fisico, gnoseologico, etico e politico, quindi tutto il reale). La visione meccanicistica galileiana della realtà fisica, che era stata estesa da Cartesio al mondo animale, venne accolta da Hobbes in termini materialistici per una spiegazione scientifico filosofica di tutto il reale.

Il corpo e il moto

Con un'analisi del nostro mondo concettuale e linguistico Hobbes identifica gli elementi primi semplici del sistema nel corpo e nel moto, in base ai quali con un metodo matematico deduttivo, com'è della geometria, costruire una filosofia scientifica della realtà che spieghi ogni fenomeno fisico ed umano.

«Corpo è qualcosa che, non dipendendo dal nostro pensiero, coincide ed è esteso con una certa parte dello spazio.»

I corpi sono dunque delle realtà sostanziali indipendenti dal nostro pensiero. Tutto ciò che pensiamo debba esistere, anche l'anima, Dio, deve essere corporeo. Se il corpo è l'essenza suo accidente è il moto poiché ogni corpo non può non essere che in stato di quiete o in moto. Questi elementi semplici spiegano ogni realtà come ad esempio quella di spazio e di tempo che coincidono con i corpi estesi e con i corpi in movimento.

La "fantasia" e il fenomenismo

La conoscenza si basa sulla sensazione che non è altro che movimento: dai corpi esterni cioè parte un movimento di pressione che si trasmette al cervello e al cuore da dove parte un contro-movimento, una reazione, stavolta dall'interno verso l'esterno, che mette in moto una facoltà tipica solo dell'uomo, la fantasia, che elabora un'immagine che va a sovrapporsi al corpo esterno da cui si è originato il movimento iniziale. Il movimento in realtà non dovrebbe produrre altro che movimento ma il fatto conoscitivo presenta una "qualità" che va oltre il meccanismo di azione e reazione del moto dei corpi:

«Tutte le qualità dette sensibili non sono altro nell'oggetto che le produce, che i diversi movimenti della materia con cui esso agisce variamente sui nostri organi. E in noi stessi, su cui essi esercitano la loro azione, essi non sono che vari movimenti, poiché il movimento non produce altro che il movimento. Ma la rappresentazione che essi suscitano in noi è opera della fantasia, sia che siamo desti sia che sogniamo.»

I corpi dunque presentano per Hobbes, come già per Galilei e Cartesio, sia un aspetto qualitativo oggettivo (figura e movimenti) che qualitativo soggettivo (dovuto alle qualità sensibili come il colore, il suono ecc.) e il meccanicismo che li regola spiega non solo i fenomeni esterni ma anche quelli della nostra interiorità come l'immaginare, il pensare, il ragionare.

Il moto infatti che dal corpo esterno arriva all'interno, generando la sensazione, non cessa al cessare dello stimolo ma, come una molla compressa e lasciata poi libera, perdura, vibrando, originando sensazioni, meno incisive della prima, che sono le immaginazioni e le idee che, al contrario dei corpi esterni che hanno una loro realtà da noi indipendente, non solo non hanno alcun rapporto di somiglianza con i corpi ma sono anche semplici apparenze, fenomeni e fantasie senza alcun rapporto con la realtà.

La logica nominalistica e meccanicistica

Nella nostra mente le immagini si mescolano o a caso o seguendo un ordine dovuto a un'idea direttrice che le unisce e le organizza tramite il linguaggio che differenzia l'uomo dagli animali e che è elemento indispensabile per tradurre il discorso mentale in discorso verbale ordinato consentendo così la comunicazione del nostro pensiero ad altri.

L'attribuzione di un nome a un insieme mentale è la funzione fondamentale dell'intelletto che però opera in modo casuale così che il linguaggio risulta del tutto convenzionale e arbitrario: non vi è nessun necessario motivo perché un concetto sia rappresentato da un nome piuttosto che da uno diverso. Un rigido nominalismo dunque quello di Hobbes per il quale gli universali sono semplici nomi che collegano immagini e idee.

La ragione invece compie un calcolo, le cui operazioni sono la somma e la sottrazione dei nomi:

«Quando uno ragiona non fa altro che ottenere una somma totale tramite una addizione di parti, o un resto sottraendo una somma da un'altra; il che se è fatto con le parole consiste nel ricavare dai nomi di tutte le parti il nome del tutto o dai nomi del tutto o da una singola parte il nome della parte rimanente. Sommando insieme due nomi si ha una affermazione, sommando due affermazioni si ha un sillogismo, sommando alcuni sillogismi si ha una dimostrazione; e dalla somma o conclusione di un sillogismo i logici sottraggono una proposizione per trovarne un'altra. Gli scrittori di politica sommando insieme i patti stipulati per trovare quali sono gli obblighi degli uomini, e i legislatori sommano le leggi e i patti per trovare che cos'è il diritto e che cos'è il torto nelle azioni dei privati. Insomma, in qualunque campo in cui c'è posto per l'addizione e la sottrazione c'è anche posto per la ragione; dove queste cose mancano la ragione non ha niente da fare.[26]»

Secondo Hobbes quindi se noi ad esempio addizioniamo il nome di "corpo" a quello di "animale" e "razionale" otterremo il nome di "uomo"; se sottraiamo dal nome di "uomo" quello di "razionale" avremo il nome di "animale".

Le obiezioni a Cartesio

Secondo Hobbes si ha un corretto calcolo logico se si segue la regola fondamentale che è quella per cui si possono unire nomi di corpo con nomi di corpo, nomi di qualità con nomi di qualità ecc.

Applicando questa regola al "Cogito ergo sum" di Cartesio si scopre che egli ha commesso un errore di calcolo mettendo assieme nome di qualità (cogito, penso-il pensare) con un nome di corpo (sum, il soggetto corporeo pensante) è come se dicessi: io cammino (nome di qualità) quindi sono una passeggiata (nome di corpo).

Hobbes ribadisce infine che la logica è una scienza formale che non assicura affatto che l'ordine dei nomi trovi riscontro nell'ordine dei corpi esterni, che alla correttezza formale corrisponda la verità:

«In realtà se volgeremo con diligenza l'attenzione a ciò che facciamo quando ragioniamo, ci renderemo conto che neppure in presenza delle cose noi computiamo altro che i nostri fantasmi; e infatti se calcoliamo la grandezza e il movimento del cielo e della terra non saliamo per questo in cielo, per dividerlo in parti, o per misurarne i movimenti, ma facciamo tutto ciò rimanendo fermi nel museo, o al buio.»

Tutto questo porta alla necessità di trovare riscontro del sistema logico deduttivo di tipo matematico con la realtà corrispondente osservata con l'esperienza induttiva. Applicando questo principio a proposito della disputa tra sistema tolemaico e quello copernicano, Hobbes sostiene che se entrambi i sistemi sono accettabili perché logicamente rigorosi, sul piano della realtà però il sistema copernicano offre una spiegazione migliore dei fenomeni celesti.

Quindi mentre per Cartesio l'evidenza razionale è conferma della realtà per Hobbes quella ha valore solo formale ma tuttavia è utile come strumento logico applicato all'esperienza che tuttavia non potrà mai essere sostituita dalla esatta connessione logica dei nostri concetti. Così per quanto riguarda le prove cartesiane dell'esistenza di Dio, Hobbes ne apprezza il rigore logico ma esse non dimostrano nulla perché di Dio non possiamo avere esperienza, come non l'abbiamo neppure della idea di Dio, poiché ogni idea è solamente un'immagine mentale dell'esperienza.

L'etica naturalistica

La triste realtà della guerra civile inglese motiva Hobbes a costruire una scienza dei comportamenti umani tale da assicurare l'ordine e la pace nei rapporti sociali evitando così ogni guerra salvo quella per la conquista di nuove terre giustificata dalla necessità di acquisire risorse per soddisfare i bisogni naturali dell'aumentata popolazione.

«Se si conoscessero con ugual certezza le regole delle azioni umane come si conoscono quelle delle grandezze in geometria, sarebbero debellate l'ambizione e l'avidità, il cui potere si appoggia sulle false opinioni del volgo intorno al giusto e all'ingiusto; e la razza umana godrebbe una pace così costante, che non si riterrebbe di dover mai più combattere, se non per il territorio, in ragione del continuo aumento della popolazione.»

Egli vuole costruire una morale naturalistica, basata cioè solo sui processi istintivi naturali dell'organismo umano che escluda ogni considerazione di valori assoluti riconosciuti dalla ragione e messi in atto liberamente. Come il moto dei corpi spiega la fisica così quelli dell'animo (desiderio o avversione, amore o odio, speranza o timore ecc.) sono determinati dalla pressione dei corpi esterni che, se favorisce il movimento vitale del corpo animato che secondo natura tende all'autoconservazione, allora si origina il contro-movimento del desiderio o al contrario si verifica la reazione dell'avversione.

Mentre amore e odio riguardano i corpi presenti, il desiderio e l'avversione sono rivolti a cose future. Il bene e il male non sono altro che l'oggetto del desiderio e dell'avversione:

«Qualunque sia l'oggetto dell'appetito o desiderio di un uomo, questi lo chiamerà per conto suo bene e l'oggetto del suo odio e della sua avversione male; mentre l'oggetto del disprezzo sarà chiamato da lui vile e non degno di considerazione. Infatti queste parole: bene, male e spregevole sono sempre usate in relazione alla persona che le usa, non essendoci niente che sia tale in sé stesso e in senso assoluto e nemmeno una comune regola del bene e del male che si possa ricavare dalla natura stessa delle cose.»

È l'oggetto buono e cattivo che genera la sensazione di piacere per il bene e quella di dolore per il male:

«Il piacere o gioia è l'apparire del bene, la sensazione di questo , e la molestia o dispiacere è l'apparizione del male, la sensazione di esso. Di conseguenza ogni appetito, desiderio, e amore è accompagnato da un certo piacere, pari o meno grande; e ogni odio o avversione da dispiacere e dolore più o meno grande.»

Una visione quindi meccanicistica dell'etica basata tutta sul concatenamento necessario dei moti dei corpi che esclude sia la possibilità di una ragione che guidi la scelta morale sia l'esistenza della libertà della quale si può parlare solo nel caso che vi sia «assenza di opposizione», di reazione al moto di un corpo (animato o inanimato, umano o animale) da parte di un corpo esterno.

L'assolutismo di Stato Distruzione del Leviatano, incisione del 1865 di Gustave Doré Lo stato di natura

Contrariamente alla concezione aristotelica dell'uomo come "animale sociale" che tenda cioè a vivere aggregandosi in comune con gli altri, Hobbes è invece convinto che nello "stato di natura", quando non esiste ancora la società umana, ogni singolo uomo, considerato nella sua individualità corporea, come ogni corpo tende ad acquisire per sé tutto ciò che favorisce il suo movimento vitale. Poiché infatti ogni uomo tende all'autoconservazione cerca di acquisire senza alcun limite tutto ciò che serve alla sua conservazione. Però ciò che fa il singolo lo fanno anche gli altri individui al punto che le azioni di uno si scontrano con l'uguale tendenza, reazione, degli altri ed allora alla fine si genera la lotta per la predominanza dell'uno su gli altri, il bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti, dove ogni singolo diviene lupo per ogni altro uomo (homo homini lupus).

Nella descrizione di questa condizione che solo l'intervento di una forza politica può modificare, Hobbes espone in un elenco i beni che la guerra civile inglese sta mettendo a rischio:

«In una tale condizione non c'è possibilità di alcuna attività di carattere industriale poiché il frutto di essa rimarrebbe incerto e di conseguenza non c'è coltivazione della terra, non c'è navigazione, non c'è uso di beni che possono essere importati attraverso il mare, non ci sono costruzioni confortevoli, non si fanno strumenti per spingere e trasportare cose che richiederebbero molta forza, non si fa computo del tempo, non ci sono arti, né letteratura, non esiste una società, e quella che è la cosa peggiore fra tutte è il continuo timore, e il pericolo di una morte violenta; e la vita dell'uomo è solitaria, povera, sudicia, bestiale e breve.»

In un siffatto stato di natura è assurdo parlare di giusto e ingiusto perché non esiste una legge ma tutto rientra in un comportamento naturale: «Dove infatti non c'è un potere comune non c'è legge; dove non c'è legge non c'è ingiustizia» e, non essendovi legge non c'è neppure proprietà, che appunto viene difesa e mantenuta dalla legge.

Le leggi di natura

Questa guerra di tutti contro tutti porterà inevitabilmente alla morte dei singoli, che si distruggeranno tra loro conseguendo l'opposto di quanto la natura prescrive: l'autoconservazione. Allora sarà la natura stessa ad indicare la strada per uscire da questa guerra deleteria per tutti: essa stessa suggerirà agli uomini di addivenire ad un accordo che quindi avverrà non per un superiore ideale morale ma solo per un principio materiale, naturale di autoconservazione. Dalla politica, ribadisce Hobbes, è esclusa ogni etica.

La natura stessa forzerà l'uomo, tramite le passioni e la ragione, a cercare la pace:

«Le passioni che spingono l'uomo alla pace sono la paura della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie per una vita confortevole, e la speranza di ottenerle attraverso il proprio lavoro. E la ragione suggerisce dei principi capaci di assicurare la pace, sui quali gli uomini possono essere indotti ad accordarsi. Questi principi sono quelli che sono anche definiti leggi di natura.»

Le leggi di natura non sono norme etiche oggettive insite nella natura, ma delle semplici regole logiche, suggerite dalla ragione, come condizioni per ottenere la pace e se l'uomo vuole conservarsi deve seguirle altrimenti entra in contraddizione con se stesso, e così agendo distrugge il suo corpo, la sua stessa essenza corporea, con la morte. La ragione allora impone che:

Il pactum subiectionis

Questa rinuncia deve essere sanzionata da un patto tra gli uomini, da un contratto sociale che stabilisca che si trasferiscano tutti i diritti naturali, tranne quello della vita, ad una persona o a un'assemblea che gestiranno per tutti gli uomini, con leggi che faranno rispettare con la forza, i diritti di natura. Il patto che dà vita alla società civile (pactum societatis) è un patto di soggezione (pactum subiectionis). Dalla naturale guerra di tutti contro tutti, l'altrettanto naturale paura della morte porta l'uomo allo Stato Assoluto, al Leviatano che ingloba in sé ogni singolo individuo, non cittadino ma suddito. Hobbes è ritenuto quindi un precursore dello statalismo moderno, e spingendosi fino a rigettare la divisione dei poteri ritenuta la causa della guerra civile inglese, è ritenuto un ideologo e un apologeta dell'assolutismo monarchico del Seicento, pur respingendo la nozione di diritto divino dei re.

L'assolutismo si impone sul popolo privandolo dei diritti tramite un contratto unilaterale siglato tra il sovrano - il Leviatano nel caso di Hobbes - e il popolo, che decide di sua spontanea volontà di privarsi dei poteri per conferirli a una sola persona. La differenza col dispotismo è che il sovrano non si impone arbitrariamente sui sudditi, ma da essi è scelto. La concezione non esclude lo sviluppo di un assolutismo illuminato, ossia di uno Stato riformatore che conceda dei diritti su propria decisione. In quanto giusnaturalista, sebbene sui generis e fondatore di un sistema filosofico giuspositivista, Hobbes però ispirerà, con il suo contrattualismo, anche pensatori liberali e repubblicani come Locke e Rousseau, che riprendono il concetto hobbesiano di contratto sociale pur rovesciandone le conclusioni favorevoli all'assolutismo. Famosa sarà la sua definizione di diritto naturale, conciliata con la sua visione di stato di natura come privo di legge morale che non sia l'istinto alla sopravvivenza, il quale spinge al contratto sociale per aumentare le possibilità di scampare alla guerra perenne:

«Il diritto di natura, che gli scrittori chiamano comunemente jus naturale, è la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo arbitrio per la conservazione della sua natura, cioè della sua vita e conseguentemente di fare qualsiasi cosa che, secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli concepisca come il mezzo più idoneo a questo fine.»

(Leviatano, capitolo XIV)

A nessuno sarà consentito di non rispettare il patto contratto con la persona o l'assemblea che gestisce il potere in nome di tutti. La terza legge di natura stabilisce infatti che:

«L'ingiuria, l'ingiustizia nelle controversie del mondo è qualcosa di simile a ciò che nelle discussioni degli scolastici è chiamato assurdità. Infatti come là si chiama assurdità l'affermare qualche cosa che è in contraddizione con le premesse, così nel mondo si chiama ingiustizia o ingiuria annullare volontariamente ciò che si era stabilito volontariamente.

Ma nel caso questo accadesse dovrà intervenire lo Stato con la sua forza prospettando, a chi trasgredisce, una pena maggiore dei vantaggi che ci si ripropone di ottenere violando il patto:

«Questa è l'origine del grande Leviatano, o meglio, per parlare con più riverenza, di quel dio naturale al quale noi dobbiamo, al di sotto del Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti con l'autorità concessa a lui da ogni singolo individuo nello stato egli possiede tanto potere e tanta forza, che gli sono stati conferiti, che col terrore così ispirato è in condizione di ridurre tutte le volontà di essi alla pace in patria e al reciproco aiuto contro i loro nemici esterni.»

Il sovrano (nella concezione hobbesiana il re o l'imperatore, ma anche lo Stato stesso, in qualunque sua forma) ha un potere assoluto e unitario e non ha alcun dovere nei confronti dei sudditi (tranne di proteggere la Nazione) perché essi stessi gli hanno dato i loro diritti ed è impossibile quindi che egli violi i patti e possa essere deposto, a meno che non ordini ai sudditi di uccidersi o danneggiare la loro persona o quella di un proprio caro (poiché quello dell'autoconservazione della propria vita è l'unico diritto che non gli è stato trasferito) con una guerra suicida. Quando egli cioè non sarà capace o non avrà la forza di difendere dai nemici interni ed esterni lo Stato assicurando, secondo i patti stipulati, l'ordine e la pace, allora, solo in questo caso, egli potrà essere deposto (come accadde a Carlo I) e sostituito con un nuovo sovrano.

Hobbes si richiamò inoltre al principio di irretroattività delle legge penale: lo Stato può punire solo per una norma entrata in vigore prima del fatto (nulla poena sine lege), altrimenti non si tratta di applicazione del diritto ma di un atto di ostilità.

Il potere del sovrano dovrà comprendere anche quello religioso con il diritto di interpretare le Sacre Scritture e far valere con suoi decreti le prescrizioni religiose, implicando però, più che un cesaropapismo (come potrebbe sembrare dall'assenza di separazione tra Stato e Chiesa nazionale), un primato dello Stato secolare sull'autorità religiosa (il sovrano possiede anche il potere religioso, ma non è un sacerdote a capo di una teocrazia), facendo di Hobbes il precursore del giurisdizionalismo illuminista in netta contrapposizione con l'ultramontanismo cattolico.

«Un crimine è un peccato che consiste nel commettere (con fatti o con parole) ciò che la legge vieta o nell'omettere ciò che comanda. Cosìcché ogni crimine è un peccato, ma non ogni peccato è un crimine. (...) Da questa relazione del peccato alla legge, e del crimine alla legge civile, si può inferire in primo luogo che, ove cessa la legge, cessa il peccato. Ma per il fatto che la legge di natura è eterna, la violazione dei patti, l'ingratitudine, l'arroganza e tutti i fatti contrari a qualunque virtù morale, non possono mai cessare di essere peccato. In secondo luogo, che, quando cessa la legge civile, cessano i crimini, perché, non rimanendo altra legge che non sia quella di natura non c'è posto per l'accusa, dato che ogni uomo è giudice di sé stesso, è accusato solo dalla sua coscienza e questa è prosciolta dalla rettitudine della sua intenzione. Perciò, quando la sua intenzione è retta, quello che fa non è un peccato; se è altrimenti, quello che fa è un peccato ma non è un crimine.»

Una Chiesa anglicana di Stato metterà infatti fine, secondo lui, ai contrasti tra le confessioni religiose che hanno caratterizzato la guerra civile:

«Se non ci fosse stata prima un'opinione accolta dalla maggior parte degli inglesi secondo la quale questi poteri erano divisi fra il Re, i Lords e la Camera dei Comuni, il popolo non si sarebbe mai diviso e non sarebbe stato trascinato in questa guerra civile, prima tra coloro che non erano d'accordo sul piano della politica, e poi tra quelli che dissentivano riguardo alla libertà di religione.

Diritto di natura è, secondo Hobbes, la libertà di ciascuno di usare il proprio potere per la conservazione della vita. Invece la legge di natura non è libertà, ma "obbligazione, una regola dettata dalla ragione". Diritto di natura e legge di natura sono però finalizzati allo stesso scopo: la ricerca della pace.

T. Hobbes, Leviatano, I, cap. XIV
Il diritto di natura, che gli scrittori chiamano comunemente jus naturale, è la libertà che ognuno ha di usare come vuole il proprio potere per la conservazione della propria natura, cioè della propria vita, e in conseguenza di fare qualsiasi cosa che, in base al suo giudizio e alla sua ragione, egli ritiene che sia il mezzo piú adatto per raggiungere lo scopo. Per libertà si intende secondo il significato proprio della parola, l'assenza di impedimenti esterni; questi impedimenti esterni possono spesso ridurre il potere che un uomo ha di fare una cosa, ma non gli possono impedire di usare quella parte che gliene è rimasta, secondo quanto gli indica il suo giudizio e la sua ragione. Una legge di natura, lex naturalis, è un precetto, una regola generale, scoperta dalla ragione, in base alla quale viene vietato all'uomo di fare ciò che è dannoso per la sua la vita o che lo priva dei mezzi per conservarla; e gli viene inoltre vietato di omettere ciò che egli considera il mezzo piú adatto per conservarla.
Infatti sebbene coloro che trattano di questo argomento confondano spesso jus e lex, diritto e legge, tuttavia tutti questi termini debbono essere ben distinti; poiché il diritto consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la legge stabilisce e impone una delle due cose; cosicché la legge e il diritto differiscono fra loro come l'obbligazione e la libertà, le quali riferite a uno stesso oggetto sono due cose impossibili. E poiché la condizione dell'uomo, come è stato detto nel capitolo precedente, è una condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, dove ognuno è governato dalla propria ragione e non c'è cosa di cui egli possa fare uso che egli non abbia la facoltà di impiegare per preservare la propria vita contro i suoi nemici, ne segue che in una tale condizione ogni uomo ha diritto su ogni cosa; perfino ognuno sul corpo di ogni altro. E quindi fino a quando dura questo diritto naturale di ognuno su ogni cosa non ci può essere sicurezza per alcuno, per quanto forte e intelligente egli sia, di vivere per tutto il tempo che normalmente la natura concede di vivere agli uomini. Di conseguenza è un precetto, è una regola generale della ragione che ogni uomo debba cercare la pace fino a che ha la speranza di poterla ottenere; e se non può ottenerla gli sia permesso di cercare e usare tutti i mezzi di aiuto e i vantaggi della guerra. La prima parte di questa regola contiene la prima e fondamentale legge di natura che è: cercare la pace e mantenerla; la seconda parte contiene il diritto di natura fondamentale che è: difendersi con tutti i mezzi che ci è dato di usare.

 Da questa fondamentale legge di natura che comanda agli uomini di cercare la pace deriva questa seconda legge, che ogni uomo sia disposto, quando lo siano anche gli altri, tanto quanto egli ritenga ciò necessario per la sua pace e per la sua sicurezza, a rinunziare al suo diritto su ogni cosa e si contenti di conservare nei riguardi degli altri uomini tanta libertà quanto egli vorrebbe che gli altri ne avessero verso di lui. Poiché fino a quando ogni individuo conserva questo diritto di fare tutto quello che vuole gli uomini permangono nello stato di guerra. Ma se gli altri uomini non sono disposti a rinunziare come lui ai propri diritti, allora non c'è ragione che se ne spogli lui solo, poiché ciò significa esporsi come preda piuttosto che disporsi alla pace: e questo nessuno è tenuto a fare. E questa è quella legge del Vangelo che dice: fai agli altri quello che tu vuoi che gli altri facciano a te. E questa è la legge di tutti gli uomini: quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris ["non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te"].

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 463-464)

Messaggi correlati