Di Redazione su Martedì, 24 Dicembre 2019
Categoria: I Maestri del Pensiero

Henri De Lubac: "L'amore è lo spirito del Cristianesimo"

Henri-Marie de Lubac (Cambrai, 20 febbraio 1896Parigi, 4 settembre 1991) è stato un cardinale e teologo francese. Può essere considerato uno dei più influenti teologi del secolo XX. I suoi scritti hanno giocato un ruolo chiave nello sviluppo della dottrina del Concilio Vaticano II.
Entrò nella Compagnia di Gesù a Lione il 9 ottobre 1913, e fu ordinato presbitero nel 1927. Fu professore di teologia fondamentale nella facoltà teologica di Lione dal 1929 al 1961.
Nel 1938 pubblicò il suo primo libro, Catholicisme, les aspects sociaux du dogme (trad. it.: Cattolicesimo, gli aspetti sociali del dogma).
Durante la Seconda guerra mondiale fu costretto a vivere nascosto per la sua partecipazione alla resistenza francese. Nello stesso periodo partecipò alla creazione dei Cahiers du Témoignage chrétien. Nel 1942 fondò con Jean Daniélou la collana di testi cristiani Sources Chrétiennes.
Del 1946 è Surnaturel. Études historiques (Soprannaturale. Studi storici), che fa scandalo. È accusato di modernismo. L'enciclica Humani generis del 1950 sembra accusarlo direttamente, il generale dei gesuiti gli toglie l'insegnamento, e i suoi libri sono ritirati dalle scuole e dagli istituti di formazione. Lascia Lione, va a Parigi, e continua a scrivere.
Nel 1958 è ripristinato nell'insegnamento. Nel 1960 è nominato da Giovanni XXIII consultore della Commissione Teologica preparatoria al Concilio Vaticano II. Ma la vera riabilitazione fu quando fu nominato "esperto" del Concilio.
Da quel momento in poi è un teologo ascoltato e rispettato, finché nel 1983 Giovanni Paolo II lo crea cardinale.
Timoroso delle derive post-conciliari, spiega la sua visione del Concilio in Paradoxe et Mystère de l'Église (Paradosso e Mistero della Chiesa, 1967) e in Entretien autour de Vatican II. Souvenirs et réflexions (1985). 
Negli ultimi anni della sua vita continuò a scrivere, nonostante l'età, la malattia, la paralisi e la perdita della voce. Morì all'età di 95 anni.
Nel 1969 Paolo VI, che ammirava gli scritti di de Lubac, gli offrì il cardinalato, ma questi rifiutò, considerando che il requisito posto da Giovanni XXIII nel 1962 che tutti i cardinali fossero vescovi fosse "un abuso dell'ufficio apostolico".
Di fatto quando Giovanni Paolo II rifece la proposta a de Lubac nel 1983, lo esentò dall'ordinazione episcopale, e de Lubac accettò.
Alla sua morte era il cardinale più anziano; la sua salma è stata inumata nel cimitero parigino di Vaugirard

 L'autore prende le mosse dall'attacco di Nietzsche al cristianesimo e conduce una serrata disamina di ciò che nel cristianesimo attuale giustifica il grido di ribellione di Nietzsche. Ne scaturisce un manifesto programmatico: riguadagnare la forza autentica del cristianesimo nel nostro spirito, cioè la forza della carità.


H. De Lubac, Il dramma dell'umanesimo ateo
I sentimenti di Nietzsche su Gesú sono rimasti sempre confusi. Lo stesso si deve dire dei suoi giudizi sul cristianesimo. In esso egli ha intravisto piú che un ideale falso, un ideale svigorito e decaduto. Ecco, ad esempio, come egli si esprime: "È la nostra pietà, piú severa e piú raffinata, ad interdirci oggi di essere ancora cristiani". Da questo si vede che Nietzsche l'ha con i cristiani del nostro tempo, con noi stessi. Il suo sferzante disprezzo ha di mira le nostre mediocrità, le nostre ipocrisie. Esso prende di mira le nostre debolezze ammantate di bei nomi. Ricordandoci la gioiosa e forte austerità del "cristianesimo primitivo", svergogna il "nostro cristianesimo attuale", talvolta effettivamente "dolciastro e nebuloso". Gli si può dare completamente torto? Dobbiamo, contro di lui, prendere le difese di tutto ciò che "oggi porta il nome di cristiano"? Quando egli, per esempio, esclama, parlando di noi: "Bisognerebbe che essi mi cantassero dei canti migliori, perché io imparassi a credere al loro Salvatore! Bisognerebbe che i suoi discepoli avessero piú aria da gente salvata!", come oseremo noi indignarci? A quanti tra noi di fatto il cristianesimo appare "come qualche cosa di grande, qualche cosa di accrescente, al quale ci si possa dare completamente provandone gioia ed entusiasmo"? Gli infedeli che ci stanno accanto ogni giorno osservano sulle nostre fronti l'irraggiare di quella gioia che, venti secoli fa, rapiva gli spiriti eletti del mondo pagano? Abbiamo noi cuori di uomini risuscitati con il Cristo? Siamo noi in mezzo al secolo XX i testimoni delle Beatitudini? In breve, noi abbiamo riconosciuta la bestemmia nella terribile frase di Nietzsche ed in tutto il suo contesto: ma non ci obbliga forse essa a scoprire pure in noi ciò che ha potuto spingere Nietzsche ad una tale bestemmia?
Questo è il tragico della situazione presente. Checché ne sia del passato – ci si dice – il cristianesimo di oggi, il "vostro cristianesimo", è il nemico della Vita, perché esso non è piú vivente "Io vedo – diceva Giacomo Rivière, già nel 1907, in una lettera a Paolo Claudel – che il cristianesimo muore... Non si sa quello che fanno ancora nel cielo delle nostre città quelle guglie che non rappresentano piú la preghiera di nessuno di noi. Non si sa quello che vogliono esprimere quelle grandi costruzioni che oggi rinchiudono stazioni ferroviarie, ospedali e dalle quali il popolo stesso ha cacciato i monaci: non si sa ciò che esprimano, sulle nostre tombe, quelle croci di stucco appesantite goffamente da un'arte disgustevole". Senza dubbio la risposta di Claudel a questo grido di angoscia era buona: "La verità non ha nulla a che vedere con il numero di persone che essa persuade". Ma se proprio quegli stessi che sono rimasti fedeli alla "Verità" appaiono senza "virtú", cioè senza forza interiore, l'abbandono degli altri non sembrerà forse giustificato? Ora, i motivi che giustificano le accuse sono tali che spesso siamo costretti a consentirvi. Una esperienza quasi quotidiana mostra che un certo numero dei piú duri rimproveri che ci vengono fatti, vengono ad uno stesso tempo e dai nostri peggiori avversari e da parte di uomini di buona volontà. Il tono, l'intenzione, l'ispirazione profonda, sono differenti, ma i giudizi sono in fin dei conti gli stessi. Convergenza strana, ma significativa. Tra i migliori di quelli che noi deludiamo in questo modo, alcuni dei piú chiaroveggenti e spirituali si trovano presi da due sentimenti opposti: li vediamo affascinati dal Vangelo, la cui dottrina ad essi appare sempre forte e nuova: sono attirati dalla Chiesa, in cui presentiscono una realtà sovrumana, l'unica istituzione capace di apportare, assieme al rimedio per i nostri mali, anche la soluzione del problema del nostro destino. Ma, arrivati sulla soglia, ecco che si arrestano: lo spettacolo che noi offriamo loro, noi, i cristiani di oggi, "la Chiesa che noi siamo", questo spettacolo li respinge indietro. Essi allora finiscono per pensare e per "dire che ciò che oggi è rimasto dell'ideale evangelico nel mondo, sopravvive fuori dei nostri campi". Non che essi necessariamente ci condannino; ma piuttosto non possono prenderci sul serio. La Storia condanna forse Romolo Augustolo per non aver questi ripetute le gesta di Cesare o di Augusto? Essa si limita solo a constatare che in questo ultimo erede dell'Impero di Roma, la linfa era esaurita... Cosí avviene di noi e della Chiesa che noi rappresentiamo, agli occhi di un certo numero di contemporanei: il loro sentimento è fatto di un insieme di ammirazione e di disprezzo.

Da qui la tentazione che oggi minaccia molti tra noi. Mentre la grande massa continua ad appesantirsi, facendo ogni giorno piú bestemmiare il Salvatore, a cui esternamente dice di appartenere, comprendendolo di fatto sempre meno, mentre gli ambienti devoti, gli ambienti "edificanti", spesso dànno prova di una sí mediocre qualità di cultura e di vita spirituale, ci sono nella Chiesa degli uomini che vedono, che riflettono. Ci sono poi dei cristiani che si rifiutano di proteggere la loro fede dietro un baluardo di illusioni. "Si – essi dicono – sono cose troppo vere. Preso nel suo insieme, il nostro cristianesimo è diventato insipido, nonostante tanti sforzi meravigliosi per restituirgli vita e freschezza, esso è snervato, sclerotizzato. Cade nel formalismo e nell'abitudine. Cosí come noi lo pratichiamo, come anzitutto lo pensiamo, è una religione debole, inefficace: religione di cerimonie e di devozioni, di ornamenti e di consolazioni volgari, talvolta perfino senza sincerità, senza presa reale sull'attività umana. Religione che sta fuori della vita, e che mette noi stessi fuori di essa. Ecco ciò che è diventato nelle nostre mani il Vangelo: ecco come è finita questa immensa speranza che si era levata sul mondo. Vi si può ancora riconoscere il soffio di quello Spirito divino che doveva rinnovare tutte le cose, dare un nuovo volto a tutta la terra? Molti tra noi non fanno forse oggi professione di cattolicesimo per le stesse ragioni di conforto interiore, di conformismo sociale che venti secoli fa avrebbero loro fatto respingere la inquietante novità della Buona Novella? E che dire poi di quell'alternativa, anzi di quel miscuglio di politica e di "devozione", in cui la religione a mala pena può trovarsi un posto? Il male benché di diversa natura, è grave per i piú "praticanti" quanto per i mondani. E gli stessi virtuosi non ne sono i meno intaccati. L'insofferenza ad ogni critica, l'impotenza ad ogni riforma, la paura della intelligenza non ne sono forse segni evidenti? Cristianesimo clericale, cristianesimo formalista, cristianesimo spento e indurito?... La grande corrente della Vita, che mai si arresta, pare l'abbia deposto, da qualche tempo, sulla riva".
Ma è a questo punto della loro riflessione, in cui la lucidità coraggiosa incomincia a mutarsi in deformazione satirica, che la tentazione si insinua. Tentazione di "guardare torto", come dicevano un tempo i profeti, verso un nuovo paganesimo, per rapirgli qualche cosa di quella vita di cui appare aureolato.
Insensibilmente i rimproveri fatti al nostro cristianesimo, si trasformano in critiche al cristianesimo stesso. Dopo di aver denunciato il modo negativo con cui pratichiamo spesso le virtú cristiane, si giunge a porre in istato di accusa "le virtú negative stesse" che fanno il cristiano. La satira del falso cristiano, il quale "non essendo né dalla natura né dalla grazia", è un essere minorato, finisce per toccare la satira nietzschiana del cristiano autentico, affetto da "emiplegia". In nome della sanità morale, dell'eroismo, o della virilità, si finisce per accusare la Croce stessa, per respingere la "figura del Crocifisso". Ci sono delle strane consonanze tra le parole che si raccolgono sulle labbra di certi giovani cristiani nei momenti di confidenze dolorose o sfuggite loro bruscamente e le caricature che sono messe in mostra, per esempio, in un'opera come il Libro dei Vivi e dei Morti. Alla fine, può essere ancora l'apostasia. I casi non sono inauditi. Essi manifestano allo stato forte una disposizione che è già largamente diffusa allo stato debole.
A nulla gioverebbe chiudere gli occhi sulle cause di un cosí profondo malessere. Non ci si deve neppure rifiutare di vedere il bene che c'è nell'avversario: non è bene infatti irrigidirsi sui propri deficit. Un tale atteggiamento, dell'intrepidità della fede non ha che le apparenze. L'anima fedele è sempre un'anima aperta. Ma, d'altra parte, sarebbe non meno fatale perdere, sia pure in minima parte, la confidenza nelle risorse della nostra eredità cristiana, per andare alla ricerca di un rimedio esteriore. Se noi vogliamo ritrovare un cristianesimo forte, quel "cristianesimo elettrizzante" di cui si è parlato cosí bene, la nostra prima preoccupazione deve essere di non lasciarlo piegare, come oggi è minacciato, nel senso di un cristianesimo di forza. Altrimenti la guarigione non sarebbe che un peggioramento del male. Se la ricerca di un cristianesimo di forza non fosse un tradimento, sarebbe per lo meno una reazione della debolezza.

 In questo caso è chiaro infatti che, volendo restare nonostante tutto cristiani, non si potrà avere come modello che una pallida imitazione dell'ideale di Forza che si avanza da trionfatore. E cosí si sarà due volte vinti in antecedenza. Invece di rivalorizzare il cristianesimo come ci si proponeva, snaturandolo lo si sarà indebolito. Qui si tratta di ben altra cosa. Si tratta di ridare al cristianesimo la sua forza in noi: questo anzitutto significa che si deve ritrovarlo tale quale è in se stesso, nella sua purità, nella sua autenticità. In fin dei conti quello di cui abbiamo bisogno non è neppure un cristianesimo piú virile, piú energico, o piú eroico o piú forte: invece abbiamo bisogno di vivere il nostro cristianesimo piú virilmente, piú efficacemente, piú fortemente, piú eroicamente se è necessario, ma di viverlo cosí come è. Non c'è nulla da cambiare, nulla da correggere, da aggiungere (questo però non vuol dire che non si debba approfondirlo senza posa); nulla c'è da adattare alla moda corrente. Bisogna riportarlo a se stesso, nelle nostre anime.
Ancora una volta si vede che si tratta di una questione spirituale e che la soluzione è sempre la stessa: dobbiamo ritrovare lo spirito del cristianesimo, nella misura in cui l'abbiamo lasciato perdere. Per questo, noi dobbiamo ritemprarci alle sue sorgenti, ed anzitutto nel Vangelo. Cosí come la Chiesa continuamente ce lo presenta, questo Vangelo ci basta. Solo che, sempre nuovo, esso deve essere sempre ritrovato. I migliori tra quelli che ci criticano, sanno qualche volta apprezzarlo meglio di noi. Essi non gli rimproverano le sue pretese debolezze; rimproverano a noi di non sapere sfruttare abbastanza la sua forza. Sapremo noi comprendere la lezione?
Signore, se il mondo è sedotto da tanti fascini, se oggi esso conosce un cosí disonorevole ritorno del paganesimo, è perché noi abbiamo lasciato andare a male il sale della vostra dottrina. Signore, oggi come ieri, come in ogni tempo, non c'è salvezza che in Voi – e chi siamo noi che oseremo discutere e rivedere i vostri insegnamenti? – Signore, preservateci da un tale inganno, ridateci se ce n'è bisogno, non solo una fede sottomessa, ma la stima ardente e concreta del vostro Vangelo.
Il cristianesimo, se noi andiamo diritti all'essenziale, è la religione dell'amore. "Dio è Amore, dice l'Apostolo Giovanni, e chi resta nell'amore, resta in Dio e Dio resta in lui". Ogni migliore presa di coscienza della nostra fede, deve farcelo comprendere meglio. Certamente noi non dobbiamo disconoscere nessuna delle condizioni di questo amore e dei suoi fondamenti naturali, in particolare della giustizia senza della quale non c'è vero amore, di quella giustizia che oggi non viene men derisa che l'amore stesso: dobbiamo diffidare di tutte le sue contraffazioni, siano esse grossolane o sottili (oggi cosí numerose), o delle ricette troppo facili per ottenerlo. Ma alla fine dei conti, tutto è per lui, poiché è l'assoluto a cui tutto deve essere ordinato, in rapporto al quale tutto deve essere giudicato. Ora, talvolta con assalti violenti, qualche altra volta attraverso mille vie piú sottili, oggi si cerca di rapirgli questo primato. Il prestigio della Forza si insinua perfino in cuori cristiani, e ne caccia o almeno vi diminuisce la stima dell'Amore. Contro questi assalti, lo Spirito Santo ci comunichi il dono della Forza. Ma contro gli attacchi piú insidiosi, che ci comunichi anche il dono della Sapienza per farci comprendere in che cosa consiste la Forza cristiana. Questa non è da mettersi accanto o di fronte all'Amore, come un antagonista: essa deve essere coltivata al suo servizio.
Nello stato attuale del mondo, un cristianesimo virile e forte, deve giungere al punto di essere un cristianesimo eroico. Ma questo epiteto è una qualifica, non una definizione, in questo caso sarebbe una falsificazione. Soprattutto questo eroismo non consisterà nel parlare sempre di eroismo e delirare sulla virtú della forza – ciò che dimostrerebbe forse che si subisce l'ascendente di uno piú forte e che si è incominciato a cedere. Esso consisterà anzitutto nel resistere con coraggio, in faccia al mondo, e forse contro se stessi, alle attrattive e seduzioni di un falso ideale, per mantenere fieramente nella loro paradossale intransigenza i valori cristiani minacciati e derisi. Resistere con una fierezza umile, poiché se il cristianesimo può e deve assumere le virtú del paganesimo antico, il cristiano che vuole restare fedele non può e non deve che respingere con un "no" categorico un neo-paganesimo che si è costituito contro il Cristo. La dolcezza, la bontà, la delicatezza verso i piccoli, la pietà – sí, la pietà – verso quelli che soffrono, il rifiuto dei mezzi perversi, la difesa degli oppressi, la oscura dedizione, la resistenza alla menzogna, il coraggio di chiamare il male con il suo nome, l'amore della giustizia, lo spirito di pace e di concordia, l'apertura d'animo, il pensiero del cielo... ecco ciò che sarà salvato dall'eroismo cristiano, il quale farà veder che tutta questa "morale di schiavi" è una morale di uomini liberi, e che solo essa può fare l'uomo libero.
Non è mai stato promesso ai cristiani che sarebbero stati sempre i piú numerosi. (Piuttosto è stato loro annunciato il contrario). Neppure che essi sarebbero apparsi sempre i piú forti, né che gli uomini mai sarebbero stati conquistati da altro ideale che il loro. Ma in ogni caso il cristianesimo non avrà mai reale efficacia, non avrà mai esistenza reale, e non riuscirà mai a fare delle reali conquiste che colla forza del suo proprio spirito: con la forza della carità.
H. De Lubac, Il dramma dell'umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia, 1978, pagg. 100-105

Messaggi correlati