Di Redazione su Mercoledì, 14 Agosto 2019
Categoria: Avvocatura, Ordini e Professioni

"Ha offeso il giudice con i propri scritti". Corte veneziana denuncia avvocato ma è polemica

 «L'oltraggio a magistrato in udienza può avvenire anche tramite scritti difensivi perché si tratta di atti destinati all'attenzione dell'organo giudicante e delle altre parti del processo... Rientrano nell'ambito del legittimo esercizio del diritto di critica le espressioni e gli apprezzamenti che investono la legittimità o l'opportunità del provvedimento in sé considerato, non invece quelli rivolti alla persona del magistrato. Le espressioni contenute... esulano dai limiti di una accettabile dialettica processuale e offendono la dignità professionale del magistrato che ha redatto il provvedimento impugnato».

Un giudizio, destinato a fare molto discutere, reso dalla Corte d'Appello di Venezia, che ha così deciso di denunciare un avvocato del Foro di Padova, Riccardo Bonsignore Zanghì, per quanto da lui - difensore di fiducia di un uomo che aveva adito il giudice per ottenere l'affidamento del figlio diciassettenne che, in più occasioni, aveva manifestato la propria volontà di abitare con il padre - asserito negli scritti difensivi. Una vicenda surreale, che potrebbe  avere un seguito processuale qualora  la Procura della Repubblica di Trento, cui gli atti sono stati trasmessi conformemente alle regole sulla competenza stabilite dal codice di rito, ritenesse che, nella fattispecie,  sussistono i presupposti per la configurazione del reato di oltraggio a magistrato in udienza, ed il giudice avallasse tale interpretazione, aprendo così le porte alla celebrazione di un procedimento penale ai danni del legale, che peraltro rischia di essere sottoposto a sanzioni anche dal Consiglio Distrettuale di disciplina, atteso che la Corte d'Appello ha ritenuto altresì di trasmettere il proprio risposto al Coa patavino cui è iscritto l'avvocato.

Che cosa sia accaduto, e raccontato da uno dei più seguiti quotidiani di Padova, Il Mattino. 

Cerchiamo allora di capire quanto accaduto. La storia ha inizio il 12 giugno scorso quando, racconta il quotidiano, arriva davanti al giudice il caso, uno dei tanti, di una coppia che decide di separarsi. Il problema è rappresentato dall'affidamento del figlio, ormai diciassettenne che viene ascoltato dal giudice. Entrambi i genitori desidererebbero tenere nella propria casa il ragazzo, ma lui, in cuor suo, ha assunto la propria scelta e la manifesta in maniera chiara al magistrato: «Pranzo con papà... Verso le 18 termino l'allenamento e mi viene a prendere papà.... Mio papà c'è sempre alla partita... Trascorro più tempo con papà e ho più affinità con lui anche con lo sport... Voglio un bene dell'anima a tutti e due, ma se devo scegliere, preferisco il papà».

Detto, fatto. Non passano che poche ore ed il giudice, con la propria ordinanza, decide esattamente  al contrario  ed ordina che l'adolescente vada a vivere con la madre sia pure con la formula dell'affidamento congiunto.  La ragione? «Il collocamento del figlio con il padre, che già condivide la medesima passione e che non pare adeguatamente rappresentare una figura di riferimento per meglio bilanciare la propria passione sportiva con il conseguimento di un minimo obiettivo scolastico, ovvero quello di concludere il ciclo di studi porterebbe ad acuire tale situazione laddove il figlio fosse collocato prevalentemente dal padre». 

 Un giudizio, questo, sulla cui coerenza si può discutere, ma il punto, naturalmente, non è questo. Il padre ritenendo il pronunciamento in questione erroneo e contraddittorio, decide di interporre reclamo e, con l'assistenza del proprio difensore propone il reclamo avanti la Corte d'Appello. Interviene nel procedimento anche locale procura della Repubblica che rilascia il suo «parere favorevole» ad accogliere il reclamo «ritenuto che il parere del figlio – prossimo alla maggiore età – relativamente alla preferenza espressa di convivere con il padre possa essere rispettato senza cagionare alcun detrimento al suo sviluppo psico-fisico né alterare il rapporto con la madre...».

Nel proporre il reclamo, l'avvocato critica fortemente il provvedimento assunto dal giudice. Scrive che «nessun giudice può ostacolare la volontà di un giovane superiore ai 16 anni, imponendo la sua linea pedagogica secondo la quale la pratica dello sport agonistico sarebbe negativa per chi studia... e decidere lui... collocandolo... non presso il genitore scelto dal figlio ma presso quello ritenuto più affine ai convincimenti pedagogici o politici del giudice». E che ancora, «queste sono scelte libere di un giovane, ormai prossimo alla maggiore età su cui nessuno, nemmeno un giudice, può permettersi di andare a sindacare dando sfogo alla sua smania da educatore privo di ogni qualifica professionale per stabilire, contro la volontà di un 17enne e ingerendosi violentemente nella sua vita, cosa sia più affine ai suoi ideali educativi». Secondo il legale l'ordinanza del giudice di primo grado è «non solo sbagliata...» ma «un gravissimo abuso di autorità del giudice patavino». E ciò in quanto «sono stati calpestati e vilipesi i principi di legge riconosciuti dal nostro codice e dalle convenzioni mondiali sui diritti del minore». Considerato che «il minore che abbia compiuto 12 anni, o anche di età inferiore se capace di discernimento... va ascoltato in tutte le questioni che lo riguardano». Cosa, nella specie, non accaduta a causa di una «libera e capziosa rielaborazione del giudice...».

Ma la terza sezione della Corte d'Appello di Padova non solo ha rigettato il reclamo ma ha ritenuto che le espressioni utilizzate dal legale siano tali da configurare il reato di oltraggio a magistrato in udienza. Cosa che, francamente, lascia perplessi.