Di Redazione su Domenica, 13 Ottobre 2019
Categoria: I classici della pedagogia

Come educare i nostri figli, la "ricetta" di Friedrich Herbart

Johann Friedrich Herbart (Oldenburg, 4 maggio 1776Gottinga, 14 agosto 1841) è stato un filosofo e pedagogista tedesco. È il maggior filosofo anti-idealista della Germania dell'idealismo. Con Herbart la linea di continuità dei grandi sistemi speculativi appare spezzata, tanto da suscitare già presso i contemporanei l'impressione di poter finalmente respirare "un'altra aria". Herbart, come sfondo delle sue teorie, muove a Kant due critiche. La prima è l'assunzione di 'mitologiche' facoltà dell'anima (la sensibilità, l'intelletto, l'immaginazione, la ragione): a questa concezione kantiana, che fa un passo indietro rispetto a Locke e a Leibniz, occorre invece contrapporre sia l'unità e la semplicità dell'anima sul piano metafisico. In secondo luogo, Herbart ritiene che su un punto cruciale la posizione di Kant vada sostanzialmente corretta: si tratta, cioè, di superare la soggettività delle forme dell'esperienza che Kant fondava nella facoltà conoscitiva e di mettere per contro in luce il carattere dato anche delle forme dell'esperienza. Per Herbart il dato è sempre costituito da ciò che viene percepito e dalla sua forma. Anche ammesso che spazio, tempo, categorie, idee siano le condizioni dell'esperienza che si radicano nell'animo, restano pur sempre da spiegare la determinatezza e la specificità delle singole cose che si manifestano nell'esperienza: perché, ad esempio, percepiamo qui una figura rotonda e là una figura quadrata? E non è dunque legittimo pensare che certe condizioni siano in realtà incluse nel dato?

Proprio perché rifiuta l'idea di un'attività spontanea del soggetto che unifica il molteplice, Herbart non vede alcuna giustificazione di qualcosa come una sintesi a priori: la certezza della conoscenza dipende piuttosto dal suo contenuto, da ciò che accade e si dà.

Già la teoria kantiana dello spazio e del tempo come forme a priori della sensibilità costituisce pertanto "una dottrina assai falsa", che ne disconosce la natura di forme seriali prodotte sulla base del decorso delle rappresentazioni. Non meno reciso è il giudizio di Herbart sulla teoria kantiana delle categorie, a suo avviso costruita su un illegittimo "salto" dalle forme del giudizio della "vuota logica" ai "concetti metafisici" della conoscenza. Per Herbart, più in particolare, la classificazione kantiana delle categorie richiede di essere disposta in maniera diversa se vuole avanzare qualche pretesa di effettiva connessione; e da questo punto di vista Herbart è persuaso che il gusto architettonico kantiano sia gravido di molti errori, come ad esempio di subordinare la categoria della realtà alla qualità, dal momento che realtà e qualità vanno se mai "collegate" per mostrare nella loro connessione che cosa una cosa sia e che essa sia.

Soggetto a critiche è anche il concetto di Io puro kantiano che palesa tutte le contraddizioni di ogni principio assoluto ed è a fondamento dell'artificiosa sistemazione "nelle scatole quadrangolari delle cosiddette categorie". Per Herbart, al contrario, si deve partire dalla determinazione della categoria come indicazione del "conformarsi dell'esperienza ad una regola in base alle leggi del meccanismo psicologico": detto altrimenti, le categorie designano la forma che l'esperienza possiede e pertanto non sono forme del pensiero, bensì oggetti del pensiero. E poiché l'analisi dei concetti metafisici che sono alla base dell'esperienza parte dal concetto generalissimo di cosa e delle proprietà della cosa ne svolge le contraddizioni, illumina i rapporti tra i 'reali' in sé inconoscibili e ai quali rinviano le loro manifestazioni fenomeniche, si ottiene una sistemazione quadripartita delle categorie - ma in realtà lontana da ogni tentazione simmetrica e non esauribile in un elenco fissato una volta per tutte - che è al "servizio" della categoria di cosa. In questa prospettiva Herbart si dichiara molto più vicino ad Aristotele che a Kant e sottolinea come la domanda relativa al sorgere delle categorie debba trovare risposta da parte dell'indagine psicologica sulla "forma seriale" della rappresentazione spaziale, di cui tutte le altre forme (categorie comprese) sono solo "analogie". Herbart inoltre pone l'analisi dei dati dell'esperienza al servizio di una struttura metafisica dell'esperienza, fondata sull'assunzione di enti reali che possiamo cogliere solo nella oro 'traduzione' nel linguaggio delle manifestazioni fenomeniche. Ma il carattere controverso di una simile impostazione metafisica, l'influenza di Herbart sulla discussione filosofica tedesca si farà sentire a lungo: da un lato sarà uno dei grandi ispiratori della psicologia scientifica che si svilupperà nella seconda metà dell'Ottocento e che si servirà largamente del lessico psicologico herbartiano; dall'altro lato la visione genetico-psicologica dell'apparato categoriale costituirà la struttura portante delle indagini sulla "psicologia dei popoli". Per quanto riguarda le tematiche pedagogiche, è importante la sua opera Pedagogia generale dedotta dal fine dell'educazione (1806) da cui è tratto il brano che riportiamo:

Pedagogia generale- Libro primo
I- Fine del governo dei fanciulli
«Il bambino viene al mondo privo di volontà: incapace quindi di ogni rapporto morale. Perciò i genitori, (sia di loro iniziativa, sia per conformarsi alle esigenze della società) possono esercitare il loro potere su di lui, come se si trattasse di una cosa. Certamente essi sanno bene che nella creatura che ora trattano a loro discrezione, senza consultarla, con l'andar del tempo sorgerà una volontà, che bisognerà aver conquistata se si vorranno evitare gli inconvenienti di un conflitto inammissibile da entrambe le parti. Ma prima di arrivare a questo punto ce ne vuole di tempo; nel fanciullo, da prima, al posto di una vera e propria volontà, capace di prendere una decisione, si sviluppa semplicemente una irruenza selvaggia, che lo trascina ora in un senso ora in un altro, che è un principio di disordine, tale da ledere le disposizioni degli adulti ed esporre la personalità futura dello stesso fanciullo a ogni sorta di pericolo. Questa irruenza deve venire repressa; altrimenti il disordine sarebbe imputabile come una colpa a coloro che hanno in custodia il fanciullo. La repressione si ottiene mediante l'uso della forza; e bisogna che la forza sia sufficiente e che sia esercitata abbastanza spesso affinché riesca a conseguire pienamente il risultato prefisso, prima che nel fanciullo si manifestino le tracce di una volontà autentica. Questo esigono i principi basilari della filosofia pratica.
Ma i germi di questa cieca irruenza, i rozzi appetiti, permangono nel fanciullo; anzi si moltiplicano e si rafforzano con l'andare degli anni. Affinché non diano alla volontà, che si sviluppa in mezzo a loro, un indirizzo antisociale, è necessario tenerli costantemente soggetti ad una continua sensibile pressione.
L'adulto, giunto all'uso della ragione, assume su di sé, col tempo, il compito di autogovernarsi. Ma vi sono anche degli uomini che non arrivano mai a questo punto: questi sono tenuti dalla società sotto una costante tutela e vengono designati, in parte, col nome di imbecilli e di prodighi. [...] Come si vede, il fine del governo dei fanciulli è vario: da una parte si tratta di evitare il danno, per gli altri e per il fanciullo stesso, sia per il presente che per l'avvenire; dall'altra si tratta di evitare il conflitto, il quale costituisce per se stesso un inconveniente; da un'altra, infine, si tratta di evitare la collisione in cui la società, senza esserne completamente autorizzata, si vedrebbe costretta al conflitto.
Ma tutto ciò ci porta a concludere che un tale governo non mira a raggiungere alcun fine nell'animo del fanciullo, e non ha altra pretesa che di creare ordine. Ciò nondimeno ben presto si constaterà che il governo non può assolutamente essere indifferente nei confronti della cultura dell'anima infantile. 
[...]
II- Multilateralità dell'interesse. Forza del carattere della moralità.
1. Come può l'educatore in anticipo far propri i fini futuri, semplicemente possibili, dell'allievo? L'aspetto oggettivo di questi fini, come cosa pertinente al semplice arbitrio, non ha alcun interesse per l'educatore. Soltanto il volere dell'uomo futuro in sé e per sé, e quindi la somma delle esigenze che, in  questo volere e per esso, egli eleverà verso se stesso, costituisce l'oggetto della benevolenza dell'educatore; e l'energia, la gioia primitiva, l'attività con le quali quell'uomo saprà soddisfare le proprie esigenze, questo è ciò che costituisce per l'educatore l'oggetto di un giudizio basato sull'idea della perfezione. In questo caso dunque ciò di fronte a cui ci troviamo non è un certo numero di fini particolari, (che del resto non possiamo conoscere in anticipo), ma, in generale, l'attività dell'uomo che si va sviluppando, il quantum della sua intima, immediata vitalità e vivacità. Quanto più grande è questo quantum, quanto più intenso, esteso, ed in sé armonico, tanto più è perfetto e tanta maggior sicurezza offre alla nostra benevolenza.
Soltanto, il fiore non deve spezzare il suo calice, la ricchezza non deve degenerare in debolezza per un eccesso di dispersione in tutti i sensi. Da lungo tempo la società umana ha trovato necessaria la divisione del lavoro, affinché ciascuno possa far bene ciò che fa. Ma quanto più ciò che si fa è delimitato, quanto più il lavoro è diviso, tanto più si accresce la varietà delle cose che ciascuno riceve da tutti gli altri. Ora, siccome la recettività spirituale si basa sulla affinità spirituale, e questa sopra esercizi spirituali consimili: si comprende allora che nel dominio superiore dell'umanità vera e propria i lavori non debbono essere isolati al punto da ignorarsi reciprocamente. 
Tutti debbono avere amore per tutto, ciascuno deve essere virtuoso in un campo specifico. Ma la virtuosità particolare riguarda la libera scelta; invece la ricettività molteplice e varia, che può derivare soltanto da molteplici iniziative dovute al nostro sforzo personale, compete all'educazione. Noi, perciò, indichiamo la prima parte del fine pedagogico con l'espressione: multilateralità dell'interesse, la quale deve essere distinta dalla sua esagerazione, la molteplicità delle occupazioni. E poiché tra gli oggetti del volere, tra le stesse
particolari direzioni, non ve ne è alcuno che ci interessi più dell'altro, allora noi, affinché non ci dispiaccia di vedere accanto alla forza, la debolezza, completeremo la nostra espressione, dicendo: multilateralità ben equilibrata. In tal modo si giungerà a cogliere il senso dell'espressione corrente:
sviluppo armonico di tutte le forze; a proposito della quale ci sarebbe da chiedersi che cosa si intende per pluralità di forze dell'anima? E che cosa debba significare armonia di forze eterogenee?


III- Individualità dell'allievo, come punto d'incidenza
L'educatore mira al generale, ma l'allievo è un individuo particolare.
Senza fare dell'anima un miscuglio di facoltà eterogenee, e senza costruire il cervello con organi positivamente ausiliari, che potrebbero esonerare lo spirito di una parte del suo lavoro: dobbiamo pur riconoscere, senza contestazioni e in tutta la loro portata, le esperienze in base alle quali l'essenza spirituale, associata a tale o ad altra forma corporea, incontra tali o tali altre difficoltà, e, corrispondentemente, delle relative agevolazioni nelle proprie funzioni. 
Ora, per quanto noi si sia indotti a mettere alla prova, attraverso tentativi, la pieghevolezza di queste disposizioni naturali e a non scusare affatto la nostra pigrizia col pretesto della superiorità della loro forza, pure prevediamo che anche la rappresentazione più pura e perfetta dell'umanità non potrà mai fare a meno di riferirsi, in pari tempo, ad un uomo particolare; anzi noi avvertiamo altresì che è necessario che l'individualità risalti affinché il semplice esemplare della specie non appaia meschino di fronte alla specie stessa e non svanisca come cosa insignificante; noi sappiamo infine quale beneficio traggano gli uomini dal fatto che individui diversi si preparino e si destinino a compiti differenti.
L'individualità caratteristica del giovane si va via via sempre di più palesando anche in mezzo alle cure e agli sforzi dell'educatore; abbastanza felicemente se non si oppone loro direttamente, oppure se, urtandovi di fianco, non provochi l'insorgere di un terzo elemento, parimenti dannoso all'allievo e all'educatore! Cosa che accade quasi sempre a coloro che in generale non sanno trattare con gli uomini e quindi non sanno neppure cogliere nel fanciullo l'uomo che già vi si trova.
Da tutto ciò risulta per il fine dell'educazione una regola negativa, che è altrettanto importante quanto difficile da osservarsi; cioè questa: bisogna lasciare per quanto è possibile intatta l'individualità. A tal uopo si esige soprattutto che l'educatore distingua bene i caratteri accidentali che gli sono propri e stia ben attento ai casi in cui egli desidera in un modo e l'allievo agisce in un altro, senza che vi sia alcun vantaggio essenziale da un lato o dall'altro. In questi casi l'educatore deve immediatamente recedere dal suo desiderio; bisogna, se possibile, addirittura reprimerne la manifestazione. Cerchino pure i genitori privi di senno di acconciare i loro figli e le loro figlie secondo il proprio gusto, stendano pure sopra il legno non piallato vernici d'ogni sorta; questa vernice, negli anni della raggiunta indipendenza, sarà violentemente scrostata, e certamente non senza dolore e senza danno; il vero educatore, se non può impedirlo, per lo meno non vi prenderà parte; egli è impegnato a costruire il suo edificio, per il quale trova sempre nelle anime infantili un ampio spazio libero. Egli si guarderà bene dall'intraprendere cose che non gli possano meritare alcuna gratitudine; egli lascia volentieri integro all'individualità l'unico vanto di cui è suscettibile, ossia d'essere nettamente delineata e riconoscibile a prima vista; per sé, egli ambisce un solo onore, che si scorga intatta nell'uomo che fu soggetto alla sua volontà l'impronta pura
della persona, della famiglia, della nascita e della nazione".

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