Con la sentenza n. 24027 dello scorso 24 agosto, la VI sezione penale della Corte di Cassazione, ha confermato la condanna per maltrattamenti in famiglia a carico di un uomo che aveva posto in essere continue minacce, aggressioni e violenze ai danni della compagna e dei figli.
Si sono, difatti, ritenute attendibili le dichiarazioni della compagna, sebbene la stessa, con motivazione ritenuta non credibile, avesse ritrattato le originarie accuse dichiarando che le stesse erano state dettate dalla volontà di accusare il compagno perché questi, che svolgeva l'attività di pastore, rincasava maleodorante e la costringeva a sbrigare commissioni per lui.
Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un uomo accusato dei delitti di maltrattamenti in danno della convivente e dei figli minori.
In particolare, l'uomo aveva imposto all'intero nucleo familiare un regime di convivenza familiare ispirato alla violenza, espressa con aggressioni fisiche, pestaggi, botte anche a mezzo di arnesi quali fruste e tubo delle capre e con continue minacce di morte, accompagnate da epiteti ingiuriosi e volgari; tale situazione aveva cagionato alla donna ed ai minori un protratto stato di prostrazione.
Per tali fatti, sia il Tribunale che la Corte d'appello di Catanzaro riconoscevano l'uomo colpevole del delitto contestato e, per la ricorrenza delle condotte abusanti e lo stato di prostrazione che ne era derivato alla compagna ed ai figli minori, lo condannavano alla pena di giustizia.
A fondamento del giudizio di colpevolezza i giudici valorizzavano le dichiarazioni rese dalla moglie, ritenendole pienamente attendibili sebbene la donna – dopo avere confermato le originarie dichiarazioni accusatorie nei confronti del compagno – nel prosieguo della deposizione aveva ritrattato le accuse sostenendo di essersi inventata tutto perché indispettita dal comportamento del compagno che, lavorando come pastore, tornava a casa la sera maleodorante e la infastidiva chiedendole di fare commissioni in sua vece.
Ricorrendo in Cassazione, l'imputato eccepiva violazione di legge e il vizio di motivazione, deducendo come la Corte aveva formulato il suo giudizio di responsabilità basandosi sulle sole dichiarazioni della persona offesa, senza valutare correttamente l'intervenuta ritrattazione della persona offesa, le cui dichiarazioni avrebbero potuto essere poste a fondamento del giudizio di colpevolezza solo se fossero state sottoposte a rigoroso vaglio critico, ad un riscontro di attendibilità e credibilità e se assistite da riscontri.
A tal fine evidenziava come la ritrattazione delle dichiarazioni rese, in prima battuta, dinanzi al Tribunale non era illogica o incredibile, in quanto le primissime dichiarazioni erano state frutto di una pianificazione accusatoria in suo danno: secondo la difesa dell'imputato, la donna, proveniente da una famiglia delinquenziale, con quelle accuse voleva colpire l'uomo per avere intrapreso un percorso riabilitativo che lo aveva condotto a vivere all'insegna della legalità.
La Cassazione non condivide le doglianze formulate.
Gli Ermellini rilevano come le censure mosse dal ricorrente siano generiche e non si confrontano con la motivazione delle sentenze dei giudizi di primo e secondo grado: il ricorrente, difatti, mira ad ottenere una valutazione alternativa, da parte del giudice di legittimità, delle prove dichiarative, a fronte della completa e logica valutazione sviluppata nella sentenza impugnata anche in merito al giudizio di attendibilità delle dichiarazioni accusatorie.
In merito al giudizio di attendibilità delle persone offese, la Corte ricorda che alle dichiarazioni rese dalla persona offesa non si applicano le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, c.p.p.; non rileva, ai fini del riscontro, che non siano stati allegati referti, a comprova delle aggressioni fisiche affermate dalla persona offesa, in quanto le sue dichiarazioni possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato; in tal caso, tuttavia, è necessaria una verifica più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi altro testimone.
Con specifico riferimento al caso di specie, i giudici hanno esaminato il contenuto delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, dirette a evidenziare un regime di convivenza familiare funzionale alla sopraffazione dei congiunti.
In merito alla ritrattazione compiuta dopo aver reso le prime dichiarazioni accusatorie, gli Ermellini evidenziamo come la Corte di Appello ne ha disatteso la valenza favorevole all'imputato con argomentazioni logiche, complete e approfondite, soffermandosi sul movente – ritenuto non credibile – indicato dalla donna a fondamento delle accuse originarie: ritrattando le accuse, infatti, la donna aveva riferito che l'originaria denuncia era dettata dalla volontà di accusare il compagno perché questi, che svolgeva l'attività di pastore, rincasava maleodorante e la costringeva a sbrigare commissioni per lui.
In conclusione, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.