Di Redazione su Sabato, 16 Novembre 2019
Categoria: Le pieghe delle Toghe: giudici, giuristi e avvocati nel '900

Corrado Calabrò, dalla giustizia amministrativa alla poesia

Corrado Calabrò (Reggio Calabria 1935), vive a Roma, alto magistrato della giurisdizione amministrativa, con la passione della letteratura. Ha pubblicato numerosi volumi di poesia con Guanda, Scheiwiller, Franco Maria Ricci, Mondatori. Celebre il romanzo Ricorda di dimenticarla, edito da Newton & Compton, Roma 1999, finalista al premio letterario Strega dello stesso anno.

da: Ricorda di dímenticarla, Newton & Compton editori, Roma 1999.

Alceo rallentò, scrutando sulla destra. Sapeva ch'era stato demolito, ma qualcosa del palazzotto doveva essere rimasto e non avrebbe potuto sfuggirgli. Superò la fontana-lavatoio dove si radunavano le donne d'Altafiumara con anfore, orcioli e panni da sbattere. Era stato un viaggio stancante, con un caldo che Alceo aveva ormai dimenticato. Erano partiti alle sei del mattino ed erano in viaggio da più di tredici ore. All'inizio era andata bene; poi, dopo lo strazio della periferia di Napoli, avevano imboccato l'autostrada Napoli-Salerno, credendo di riprendere la corsa. E lì avevano trovato il tappo. Le macchine erano in fila,ferme per chilometri. Venditori ambulanti vendevano accendini, orologi falsi e radioline che la gente faceva andare a tutto volume; ragazzini giocavano a palla a volo tra e sopra le macchine; barbieri da strada, con scodella di sapone, pennello e rasoio a mano, facevano la barba agli autisti seduti sul cofano o rimasti al volante coi finestrini abbassati. Quando Dio aveva voluto, si erano mossi a passo d'uomo e infine più scorrevolmente fino a Salerno. Da lì, prendendo la statale 19, s'erano inerpicati verso Lagonegro, dove avevano comprato una pagnotta fragrante di pane casereccio e soppressata col peperoncino rosso che strappava la lingua. S'erano fermati con la Giulia vicino alla fontana. Sul muretto stavano seduti cinque-sei giovani. "Siamo passati dai Borbone ai Savoia, a Mussolini, alla Repubblica e alla Cassa del Mezzogiorno, ma i giovani qui aspettano sempre. Altro che movimento giovanile...", aveva detto Alceo a Leda. 

"L'acqua però è buona", aveva commentato Leda, raddrizzandosi e asciugandosi la bocca con la mano."Non di sola acqua vive l'uomo...".  I giovani attorno alla fontana guardavano Leda con gli occhi spirítati. Scesi sulla costa per la provinciale incassata nella valle del Noce avevano preso la litoranea. Appena in vista del mare Leda aveva gridato: "Facciamo il bagno, facciamo il bagno !". Superata Praia a mare, s'erano fermati ai bordi della spiaggia di fronte all'isola di Dino. Leda era scesa dalla macchina di corsa, dopo essersi sfilata dalla testa il vestito e, così come si trovava, in reggiseno e mutandine, s'era inoltrata in mare spruzzando acqua intorno allegramente. Alceo l'aveva seguita in slip, senza aver tempo di indossare il costume, con in mano le chiavi della macchina, per timore che gliela portassero via e li lasciassero lì, adamiticamente, come Tyrone Power e Linda Cristian. Era il ventuno giugno e per fortuna, pur essendo sabato, non c'erano ancora bagnanti sulla spiaggia. Arrivò una famiglia al completo - col capofamiglia che portava la sdraio e la moglie l'ombrellone - mentre stavano uscendo dall'acqua. Alceo ne evitò gli sguardi, ma li sentiva puntati addosso come se fossero nel mirino di un fucile da tiro a segno. Asciugatasi sommariamente, Leda si era tolti reggiseno e mutandine, mentre Alceo le teneva l'asciugamano intorno, e s'era reinfilata il vestito a sacco, senza niente sotto; le cosce strepitose le restavano scoperte due palmi sopra il ginocchio. Reimmettendosi nella statale 18 e guidando solo con la sinistra perché la destra la teneva tra le gambe di Leda lisce come seta, Alceo non aveva rispettato lo stop. Trenta metri più avanti c'era una pattuglia di carabinieri che l'aveva fermato: gli avevano preso i dati anagrafici stentatamente, con una sospettosità criminale come gli pigliassero le impronte digitali. Se n'era andata tutta la giornata per giungere sulla jonica.                                             "Siamo arrivati?", domandò Leda, risvegliandosi per un momento."Manca poco".

 Mancavano, in effetti, più di quaranta chilometri. Dovevano arrivare a Capo Spartivento ma Alceo voleva far rivedere a Leda La Sena o quel che ne era rimasto. Contò metri, 150 dalla fontana e si fermò. Doveva essere lì. Ma la superstrada 106 proseguiva ininterrotta. Passarono due donne con le anfore sul capo, come venti secoli prima. "La Sena?", domandò Alceo a voce bassa. Le donne lo guardarono senza capire. Stavano lì da venti secoli e non ricordavano un castelletto che c'era fino a pochi anni prima. Un castelletto ai cui muraglioni loro e i compaesani dovevano forse la vita. "Che c'è?", fece Leda nel sonno. Non gradiva che si chiedessero informazioni. In questo il suo anticonformismo sconfinava nel rifiuto irragionevole delle relazioni interpersonali usuali nella società civili; si regolava col sole, con certi punti di riferimento preconsci, forse con certi richiami magnetici che solo lei, come gli uccelli e i pesci, percepiva. Questa volta un richiamo dell`incoscio lo sentiva Alceo: la casa era lì! Bisognava però girare a destra o lasciare però la macchina pericolosamente sul bordo della strada. Proseguì per un paio di centinaia di metri, ritrovò il ponte della ferrovia e la strada sterrata che vi passava sotto, tornò indietro e accese gli abbaglianti. Aveva ritrovato la via di casa come un cavallo che torna alla stalla scosso, senza cavaliere. Ma la casa non c'era: uno spiazzo sabbiosa infestato da sterpi si apriva davanti, col terreno acquitrinoso e resti di mattonato dove affiorava il salnitro, segnato ai margini da qualche pezzo di muraglia diroccata. Massi megalitici erano sparsi tutt`intorno.

Ma proprio sopra la casa doveva passare la superstrada! Sarebbe stato tanto più logico fare una curva.. Spense i fari e appoggio la testa sul volante. Dalla casa - gli tornava negli occhi f si passava alla spiaggia e dalla spiaggia al mare senza soluzione di continuità. Sotto i muraglioni a macigni del castello si spalancava l'immensa cantina, estesa quanto tutto il caseggiato, che si prolungava poi sotto il terrapieno in un tenebroso budello che una volta sbucava a mare.                                                           Lungo le pareti si allungavano nella semioscurità le botti, le commari, come le chiamava Peppe il fattore (per zio Leandro: le tastetonneau o I 'ivre du seigneur) che le contraddistingueva non con un numero ma per nome: commare Santuzza, commare Venanzia, commare Petronilla, commare Natuzza... Gli si accostava tenendo il calice di degustazione in mano, con la migliore creanza: "Commare, vi trovo ben portante. Gradite sgravarvi un goccetto?". Spillava due dita di vino e portava il calice al naso, annusando profondamente; poi lo elevava all'altezza degli occhi socchiusi, mormorando prosit con la fronte leggermente inclinata, e sorseggiava pensosamente. L' espessione in faccia variava dalla perplessità alla beatitudine ma la bocca in ogni caso era atteggiata a compiacenza: "Che Dio benedica questa panza", concludeva immancabilmente e si accomiatava palpeggiando le doghe della commare. Il suo pensiero recondito lo teneva per sé per rivelarlo esclusivamente a don Elpidio, il sabato sera, in una stanzetta riservata a questo solo offizio, come un confessionale, dove il padre di Alceo lo riceveva seduto in una seggiola che ne costituiva l'unico arredo.

Peppe si presentava con la berretta in mano ma a testa alta, compenetrato del suo ruolo, ed enunciava lentamente i suoi referti, infallibili e oscuri come oracoli. A La Sena Alceo restava da giugno a ottobre. Nei mesi di luglio e agosto c'erano anche la mamma e zia Mena. Poi solo una donna di servizio, sott'ordinata alla moglie del fattore, che badava in primo luogo a zio Leandro, il quale faceva la sua apparizione saltuariamente e senza preavviso scompariva per giorni. Suo padre, tranne il mese di agosto, veniva solamente il sabato e ripartiva il lunedì mattina. Negli altri mesi Alceo dormiva spesso solo, con un fuciletto calibro 12 poggiato accanto alla spalliera del letto e i cani che giravano liberamente per casa. A settembre e ottobre, la mattina presto Ntoni Galeotta, il primogenito del fattore, veniva a bussare accompagnato da un paio di figli. Si avviavano nell'oscurità, portando sulle spalle le gabbie delle quaglie accecate' per una stradella di campagna fiancheggiata da vecchi ulivi e lecci, nel cui fitto qualche volta un gufo sgranava all'improvviso gli occhi. Poi prende. vano su per il vigneto, risalendolo fino ai piedi delle colline; lì piazzavano i richiami sui pali e aspettavano. Le quaglie giungevano stremate per la traversata dall'Africa e si gettavano giù come sassi: le sentivano frusciare

nel buio fra le foglie delle viti. Alle prime luci Ntoni andava a ritirare il sacco a rete colmo, se lo buttava in spalla e andava via. Tornava dopo un po' con quattro-cinque cani e cominciava la sparatoria.

 Il vigneto si stendeva dalle colline fino al mare, dardeggiato dal sole. Un torrente secco, scarnificando il terreno, serpeggiava giù da timpa la Motta, si allargava nella Conca del Soppiatto e scendeva fino al litorale segnando il confine col comune di Péllaro: un solco invalicabile come quello tracciato da Romolo con l'aratro. La spiaggia era racchiusa tra gli scogli da un lato e una punta sabbiosa all' altra estremità, dove stavano le barche dei pescatori.  Uscivano con la lampara a pesca di costardelle e aguglie. Rientravano verso mezzanotte - tutti gli orari ruotavano con la pesca e gli uccelli di stagione _ e la moglie di Peppe, con la nuora, si metteva subito a friggere i pesci che ancora guizzavano. Il giorno Alceo lo trascorreva sulla spiaggia coi figli dei pescatori e coi cugini di Milano, che venivano per due, tre settimane. Ricordava suo cugino Gianni quando s'era scottato terribilmente al sole ala pelle gli veniva via a lembi come l'impanatura delle cotolette. Zia Mena se l'era presa con Alceo, che pure era più piccolo. Non conservava ricordo di quando avesse imparato a nuotare: era stato in un'età antecedente quella dell'autoconsapevolezza, tanto ch'egli stentava a intendere come qualcuno potesse non nuotare, così com'è inconcepibile che non si sappia camminare o respira re. Nuotava con qualsiasi tempo e con qualsiasi mare. Nessuno si spingeva a nuoto lontano quanto lui. U senariu era considerato un po' pazzo dalle mogli dei pescatori e dei contadini sparsi con le loro casupole lungo la costa: richiamavano con grida lamentose i loro ragazzi perché non lo seguissero nelle sue sfide a oltranza. 

Qualche volta, in barca a vela o anche a remi, andavano fino alla punta di Péllaro. Un chilometro  abbondante della punta era stato ingoiato dal terremoto del 1908. Al terremoto seguì il maremoto: un'onda gigantesca si ritirò una sessantina di metri dalla riva scoprendo il fondale sabbioso e poi si abbatte sulla costa; e un tratto della punta di Péllaro non riemerse mai più. Qualche metro sotto l'acqua limpidissima si scorgevano le case sommerse, divenute abitacolo di pesci. Tuffandosi dalla barca, Alceo e i figli dei pescatori si ímmergevano in apnea e con stecche d'ombrello tramutate in frecce andavano a stanare i pesci dalle loro stanze subacquee.

Il territorio del comune d`Altafiumara era contiguo a quello di Pellaro. La proprietà Rondini cominciava proprio subito dopo la punta, una striscia di terra che l'abate Cudia aveva definito Finísterre. L'abate Cudia era quello che aveva introdotto la coltura e l'industria del bergamotto in provincia di Reggio: una coltura d`elezione, pagata a peso d'oro (fino a quando, alla fine degli anni Trenta, l`essenza non venne prodotta anche sinteticamente), perché il bergamotto è indispensabile come base per formare qualsiasi profumo. Ma la rinomanza dell`abate Cudia non era affidata tanto a questo quanto a una sua massima per il gioco della scopa entrata nel sapienzario popolare: U dissi puru labteCudia: / cu setti d'oru non si cugghiunia. Appena superata la punta di Péllaro il paesaggio cambia improvvisamente: agli alberelli di bergamotto subentrano, a perdita d'occhio, distese di viti. Zio Leandro si mise in testa d'impiantare nel loro vigneto il bergamotto. Ma il tentativo falli. Fece allora venire un cattedratico di agraria del nord che s'installò in casa e dopo lunghe riflessioni suggerì di piantare un filare di alberi frangivento. Per cinque chilometri, lungo la riva del mare, vennero piantati degli eucalipti, che crebbero rapidamente. Un certo numero di piantine di bergamotto attecchì; e alcune, anche, si svilupparono: ma non giunsero a fioritura. Zio Leandro fece allora venire un esperto da Barcellona il quale emise il verdetto che la causa andava ricercata nella composizione chimica del terreno. Venne trasportato da Péllaro e da San Gregorio terreno di riporto, comprato a prezzi proibitivi: una lunga teoria di carri matti, tirati da buoi, portava la terra, che un esercito di contadini spargeva in uno strato sottile sul terreno. Alcune pianticelle misero i fiori, ma il frutto aborti. Zio Leandro s'incaponì; fece trasportare altra terra. Niente: fino a Finisterre il bergamotto prosperava; un metro più in là scattava l'interdetto dell'abate Cudia: la pianta, anche se cresceva, era sterile. Zio Leandro, intanto, si era indebitato con le banche per le enormi spese che gli erano rimaste sul groppone; a un certo punto aveva firmato delle cambiali. I fratelli onorarono la sua firma; ma tutta la proprietà, un pezzo dopo l'altro, dovette essere venduta e il papà di Alceo dovette impiegarsi alle dipendenze altrui, continuando a praticare la professione il pomeriggio, fino a notte fonda.

Pure essendo solo a una quindicina di chilometri di Reggio, Alceo non ricordava di essere mai tornato d'estate in città, in quegli anni, tranne la volta in cui morì zio Apollonio, il marito di zia Mena (che zio Leandro chiamava Ampollonio). Viveva come una doppia vita, in due mondi completamente separati: d'inverno scuola e città, d'estate mare, terra bruciata libertà. Gli si angustiava l'anima quando, a ottobre inoltrato doveva tornare in città: il vento spazzava la spiaggia e la strada, facendola impallidire sotto il cielo velato.