Con l'ordinanza n. 367 dello scorso 13 gennaio, la I sezione civile della Corte di Cassazione ha rigettato la domanda di una donna volta a rendere efficace nella Repubblica una sentenza ecclesiastica che dichiarava con la nullità del suo matrimonio, in quanto si era accertato che i coniugi, sebbene avessero residenze differenti, avevano comunque convissuto a distanza per oltre tre anni.
La Corte, premesso che la convivenza tra coniugi non richiede necessariamente la coabitazione materiale dei medesimi, ha specificato che "la convivenza "come coniugi", quale elemento essenziale del "matrimonio-rapporto", ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di "ordine pubblico italiano", la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del "matrimonio-atto"".
Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio da una pronuncia emessa dal Tribunale ecclesiastico regionale della Lombardia, con la quale veniva dichiarata la nullità del matrimonio concordatario celebrato fra una coppia di coniugi.
La moglie proponeva, quindi, esplicita domanda volta a dichiarare l'efficacia nell'ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica.
La Corte di Appello di Milano rigettava la domanda, ritenendo che fosse ostativa alla dichiarazione di efficacia la circostanza per cui il matrimonio era durato più di tre anni.
In particolare, i giudici deducevano che la ultratriennale convivenza "come coniugi", sebbene anomala perché i coniugi avevano differenti residenze, integrasse una situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio.
La donna, ricorrendo in Cassazione, denunciava la violazione e falsa applicazione degli articoli 2727,2729 e 2697 c.c., per aver il giudice negato la dichiarazione di efficacia in Italia della sentenza ecclesiastica, ritenendo che il matrimonio fosse durato più di tre anni sulla base di fatti che non integravano in alcun modo presunzioni gravi, precise o concordanti.
A tal fine la donna sosteneva come il periodo di convivenza tra i coniugi era inferiore a tre anni e ciò in quanto il marito aveva sempre tenuto una distinta residenza anagrafica.
La Cassazione non condivide le doglianze sollevate.
Gli Ermellini ricordano che le Sezioni Unite della Cassazione, in materia di delibazione di sentenze in materia matrimoniale emesse da Tribunali ecclesiastici, hanno stabilito il principio secondo il quale la convivenza "come coniugi", quale elemento essenziale del "matrimonio-rapporto", ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di "ordine pubblico italiano", la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del "matrimonio-atto".
Con specifico riferimento al caso di specie, gli Ermellini – premesso che la convivenza tra coniugi non richiede necessariamente la coabitazione materiale dei medesimi – evidenziano come il marito aveva giustificato la scelta di tenere separata la sua residenza in quanto la moglie aveva scelto come domicilio coniugale la casa della madre, alla quale era legata da un eccessivo attaccamento; pertanto la presenza ridotta del marito dal domicilio coniugale non escludeva la convivenza ultratriennale.
Conseguentemente, la Cassazione ribadisce come la Corte territoriale abbia accertato, con argomentazioni condivisibili, che la ultratriennale convivenza, sebbene anomala perché i coniugi avevano differenti residenze, integrasse una situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana della predetta sentenza di nullità pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico, in quanto trattavasi di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali ed ordinarie di "ordine pubblico italiano".
In conclusione, la Cassazione rigetta il ricorso, condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità a favore del controricorrente nonché al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.