Di Rosalia Ruggieri su Sabato, 01 Giugno 2019
Categoria: Professionisti e Studio

Consulenza fiscale, SC: “Il professionista è tenuto a risarcire il danno, se non prospetta tutte le vie percorribili”

Con l'ordinanza n. 14387 dello scorso 27 maggio, la terza sezione civile della Corte di Cassazione, pronunciandosi in tema di responsabilità professionale del commercialista, ha condannato un consulente fiscale a risarcire il danno patito dal cliente, per non averlo informato su tutte le possibili soluzioni percorribili per recedere da una società di cui era socio.

Si è difatti precisato che il commercialista, quale che sia l'oggetto specifico della sua prestazione, ha l'obbligo di completa informazione del cliente ed è tenuto a prospettargli sia le soluzioni praticabili che, tra quelle dal cliente eventualmente desiderate, anche quelle non praticabili o non convenienti, cosi da porlo nelle condizioni di scegliere secondo il migliore interesse.

Nel caso sottoposto all'attenzione della Cassazione, un socio lavoratore di una società si rivolgeva al proprio commercialista al fine di ottenere un parere per uscire da una società; il commercialista gli consigliava di recedere dalla società facendosi liquidare la quota, ipotizzando una tassazione pari a circa 85 mila euro; il cliente seguiva il consiglio ma, poco dopo la definizione dell'operazione, apprendeva dal commercialista che l'imposizione fiscale sarebbe stata pari ad euro 117 mila, e solo pochi mesi dopo, riceveva un accertamento da parte del Fisco che conteneva una pretesa tributaria di 190.993,82 euro.

In virtù di tanto, il cliente conveniva in giudizio il proprio commercialista, imputandogli di avergli dato un parere sbagliato sulla convenienza fiscale del recesso, provocandogli un danno pari alla somma che aveva dovuto versare al Fisco.

In primo grado la domanda veniva accolta; la Corte d'Appello di Bologna, invece, rigettava la domanda non ravvisandovi estremi di responsabilità professionale nella condotta del commercialista. 

In particolare, i giudici di secondo grado evidenziavano come il recesso fosse l'unica strada possibile, sicché il cliente aveva scelto tale soluzione liberamente, fuori da ogni consiglio del consulente.

Il contribuente ricorreva in Cassazione e, nel ribadire la propria posizione, censurava la sentenza d'appello per non aver correttamente valutato quale fosse il contenuto della prestazione cui il commercialista si era obbligato.

In particolare, secondo il ricorrente, il giudice di secondo grado era incorso in errore nel non considerare che l'obbligazione del commercialista era quella di fornire una consulenza sia sulla convenienza di abbandonare la società, sia sul modo fiscalmente più conveniente per farlo; di contro, il giudice di appello si era limitato ad affermare che il commercialista aveva adempiuto correttamente la propria obbligazione, prospettando come unica soluzione possibile il recesso.

In secondo luogo, il ricorrente rilevava come una volta provato l'inadempimento del consulente (posto che costui aveva assunto l'obbligo di suggerire la soluzione più conveniente e non aveva adeguatamente informato il cliente di quale tale soluzione fosse), gravava sul commercialista la dimostrazione della non imputabilità.

La Cassazione condivide i rilievi avanzati dal ricorrente.

In punto di diritto si ricorda che il commercialista, quale che sia l'oggetto specifico della sua prestazione, ha l'obbligo di completa informazione del cliente ed è tenuto a prospettargli sia le soluzioni praticabili che, tra quelle dal cliente eventualmente desiderate, anche quelle non praticabili o non convenienti, cosi da porlo nelle condizioni di scegliere secondo il migliore interesse. 

Con specifico riferimento al caso di specie, era emerso che il commercialista – di comune accordo con il consulente dell'altro socio – aveva deciso di proporre al cliente la sola ipotesi del recesso, senza informarlo della difficoltà eventuale che si poneva nel praticare l'altra strada, quella della cessione; tuttavia, omettendo completamente di prospettare la possibilità di ricorrere alla cessione, di fatto negava al proprio cliente la possibilità di prendere una decisione consapevole.

Sul punto la Corte rileva come effettivamente la Corte di merito non abbia considerato che il commercialista era tenuto, ancor prima che a proporre la soluzione fiscalmente più conveniente, a prospettare quali fossero tutte le vie percorribili per abbandonare la società, soprattutto in ragione del fatto che il cliente, al momento del conferimento dell'incarico, aveva specificamente prospettato al commercialista che il suo obiettivo era quello di lasciare l'azienda, a prescindere da quello che sarebbe stato il costo economico.

Alla luce di tanto, l'omessa informazione ha avuto rilievo, in quanto il cliente non è stato messo in condizione di scegliere quale soluzione attuare.

Evidenziato l'inadempimento, ovvero l'omissione delle necessarie informazioni, la Corte rileva come il consulente abbia anche errato nel prospettare i costi finali dell'uscita dalla società, comunicando al cliente un costo fiscale dell'importo pari a meno della metà di quello che poi ha effettivamente sostenuto: già questa divergenza, da sola, è frutto di un errore del consulente e costituisce inadempimento al suo obbligo di valutare il costo fiscale, a prescindere dalle valutazioni sull' esistenza di alternative.

In applicazione delle generali regole probatorie di cui all'art. 1218 c.c., allegato l'inadempimento, non è stata fornita, da parte del consulente, la prova liberatoria.

Il ricorso viene, quindi, accolto; la Corte cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello Bologna in diversa composizione, anche per le spese di legittimità. 

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