Bruno Cicognani (Firenze 1879-1971) avvocato e scrittore, autore di narrativa, teatro e saggistica. Tra i racconti e romanzi, Gente di conoscenza, Edizioni della Voce, Firenze 1917;
da: Gente di conoscenza, Edizioni della Voce, Firenze 1917.
Fin tanto che ero bambino, quando mia madre andava a far delle visite mi conduceva quasi sempre con se. Non crediate che mi strascicasse per tutti i salotti delle signore del bel mondo o nei covi della gente ormai disfatta e imbestiata; no: per lo più mi menava in casa di gente che s'accaniva ancora a difendere la propria umanità, nell'ultimo paio di lenzòli rimasto nell'armadio. A codesta gente ella sapeva di poter giovare e giovava - in che modo preciso l'ho sempre ignorato - ma sta il fatto che all'uscir dalle case io ricevevo sulle gote coppie di baci che non erano per me ma per le mani di mia madre e li davano a me perché le persone credevano, dandoli a me, di far anche più piacere a lei. Ma io ne avrei fatto volentieri a meno di quei baci e subito mi fregavo le gote colla manica del vestito o col dorso della mano "Neanche a me mi piace che ti bacino" - mi diceva mia madre - "ma ad impedirglielo pensa che cattività sarebbe l". Ed io non ardivo, conoscendo il cuore ch'ella aveva, di confessarle la mia ripugnanza per quei baci di donne col fiato che puzzava a causa dello stomaco guasto dal digiuno o che pur sapeva d'aglio 0 di cipolla. Donne coi giubili stinti e il fintino, con le faccie bollose come la signora Assunta o che pigliavan tabacco. E anche le giovani avevano la faccia di vecchine, le giovani piallate, coi fianchi strutti, in sottana di sotto anche per casa e sui visi arresipoliti le chiazze della cipria troppo a muschio.
Quante donne c`erano in casa, tante ci riaccompagnavano le e non finivan mai di dir grazie a mia madre. Qualcuna, vecchia, la chiamava "Giulina" e io non so dire che emozione mi desse il sentire chiamare così mia madre. E n'era commossa anche lei, ma non se ne faceva accorgere; sennonché, poi, quando mi poteva parlare senza che le tremasse la voce "M'ha conosciuta piccina" e mi raccontava, secondo... o che quella aveva avuto in Maremma, oltre Siena, tenute sconfinate in cui si davano di grandi cacce al cinghiale oppure poderi e poderi in Casentino: "nel Casentino che e così verde e così dolce, quando tu lo vedrai, così spazioso e con tanti castelli...". E io mi figuravo le macchie maremmane o i castelli del Casentino mentre si scendevano le scale buie, le scale della case di Borgo Allegri o di via de' Pepi; le scale chiuse rampicanti tra i muri al buio... non se ne trova l'imbocco; ma quando siamo al primo pianerottolo, per un momento s'ha l'illusione che, in alto, un pezzo di buio s'acenda un poco, poi buio spento daccapo; ma, al secondo pianerottolo, si distingue che c'è al soffitto una grata e ad ogni piano la grata lascia passare delle striscie sempre più chiare finché, in cima, si vede la lanterna cappello di cristallo.
Poi quando si scende è tanto divertente guardare, dai pianerottoli, di sotto in su, le persone che scendono dopo di noi e passan di sopra alla grata...Come le scale così i quartieri si somigliavano tutti. Noi s'era ricevuti nel salotto che dava sulla strada - la sola stanza un po' ariosa - il resto sulle corti; e ciascuna delle stanze era generosa del suo colaticcio di luce a un'altra incassata la quale guardava sulla prima da una rosta da cui non poteva neppure respirare. Puzzo di rinchiuso, di panni sporchi, di spazzatura sotto l'acquaio, di fogna o di licet - i licet orribili ~ ma in qualche casa, talvolta, si sentiva nell'aria cambiata da poco, leggermente un odore di spigo o di giaggiolo.
Gli impiantiti, avvallati, consumati, le mura va a saperne tu il colore: quelle del salotto a stampini, i soliti stampini; il soffitto a travicelli intonacati - la crosta dell'intonaco casca a pezzettini sui mobili; tutti invalidi, i mobili; è vero che il canapè è una specie di fòdera che dà l'illusione di coprire chi sa che stoffa preziosa, ma io, piccino, vedo sotto il canapè ciondolare bioccoli di capecchio. Ai muri i porta giornali lavorati a punt'in croce- calìe ~ e figure di calendari vecchi e l'orologio col cucùlo che ad ogni quarto d'ora vien fuori a ripetere il suo verso. Ma la cosa più interessante, che più mi colpiva, era l'arma di famiglia dipinta a colori sfacciati in un quadro attaccato nell'ingresso, proprio davanti all'uscio di casa, o se no, nel salotto, sopra il canapè: che penne svolazzantisu quell`elmo di crociato! Tutto ciò che restava alla famiglia della grandezza passata. Le padrone di casa per farmi star bono mentre parlavan dei loro travagli e della loro miseria mi mettevano a sedere su di un panchettino vicino alla finestra e, davanti, su una seggiola, un album di fotografie: omini con delle tube sperticate e donne con le sottane palloni e bambine con le mutande più lunghe delle gonnelle: ohh! Una cosa che mi faceva schifo. In tutti gli album le stesse persone mi parevano: ell'erano ormai le mie conoscenze; io andavo a far visita a loro. Ma quando si saliva dalla signora Ermellina che stava, sola, all'ultimo piano d'una specie di torre li da via de' Cerchi era un'altra cosa: la signora Ernellina era un'amica anche mia. Portava d'estate un corse bianco ricamato e in capo una berretta bianca con le gale inamidate; era linda, Con certe manine fresche per quanto avesse i capelli bianchi A le uscivano di sotto la berretta i buccolotti bianchi ch'erano un'allegria. M'empiva le mani di confetti di Pistoia, m`accendeva un altarino ch'era una bellezza e mi diceva: tocca pure, divertiti, e se ti piace di più baloccarti coi gingilli della consolle, divertiti con quelli: non ti pigliar soggezione; se rompi, le cose son fatte apposta per esser fracassate, come noi per morire. E rideva ma in un modo che allora io m'accorgevo che aveva detto una cosa triste e ¢h'ell'era piena tutta di tristezza. Quando s'andava via, mi regalava le figurine del Liebig. E fatto a forza di figurine era il tappeto sulla tavola - un tappeto da casa d'Arlecchino: com'era allegro, a prima vista, anche quello! Con i peneri di lana di tutti i colori; e sulla consolle c`eran tante figurine e frutta d'alabastro.
Le poche visite, poi, d'etichetta, quelle, che peso, che noia! Tutte signore vestite di nero: Pettinature gravi di capelli posticci o misere da quanto stiracchiate e, giù, sulle tempie, appiccicaticcio di tendine. Mode rimpiaccicottate su quelle ch'io vedevo negli album in quell'altre case - seta e raso, raso e seta - sottane con gli sboffi sui fianchi e lo strascico, fiocchi appassiti, trine funerarie, mantiglie pesanti di gé. E certi cappellini! _ . sportine ed imbuti di paglia, callotte scàmpoli de' nastri delle trine e del gè; impiastri raffrescati con un rosone di cencio o con una ciocca di ciliegie di vetro.Saloni oscuri gelidi, senza riscaldamento anche di gennaio: lo stesso freddo che fuori, più umido dentro le mura di pietra dei palazzi monumentali decrepiti nelle strade sepolcri della nobiltà medioevale. Quartieri anche questi che si assomigliavano tutti: le stesse alcove, gli stessi stucchi, la stessa generazione d'angioli svolazzanti in libertà per i soffitti ed uno in mezzo, che ride a gote gonfie lo stesso nonostante che abbia nel bellico ilgancio della lumiera infilzato. Armadi enormi ai muri e gli impiantiti di finto marmo scrostati e chiazze di salnitro. I mobili pesi, cupi, immersi da anni nel sonno custodito da' tappeti, dalle tende, dagli arazzi, dalle portiere... Ma un capitello o una balaustra o una ringhiera o un fregio allegri e vispi come me e il glicine fiorito su certi pergolati nel bigio delle corti mi rimetteva l'ùzzolo di far le capriole.