Di Rosalia Ruggieri su Venerdì, 20 Settembre 2019
Categoria: Famiglia e Conflitti

Bigamia, SC: “Scatta sempre l’addebito per il coniuge infedele”

Con l'ordinanza n. 23010 dello scorso 16 settembre, la VI sezione civile della Corte di Cassazione ha addebitato la separazione ad una moglie che, in costanza di matrimonio, aveva contratto altro matrimonio con un cittadino egiziano. Si è difatti precisato che, di fronte alla bigamia di un coniuge, nessun'altra violazione dei doveri coniugali perpetrata dall'altro coniuge può annullare la rilevanza del comportamento adulterino ai fini della pronuncia di addebito, in quanto "la bigamia rappresenta una circostanza di tale gravità da fondare, di per sé sola, la dichiarazione di addebitabilità della separazione, sussistendone il nesso di causalità con la crisi del rapporto coniugale".

Sul merito della questione aveva statuito, inizialmente, il Tribunale di Roma che, pronunciandosi sulla separazione personale dei coniugi, la addebitava alla moglie, così respingendo le sue richieste volte ad ottenere l'assegnazione della casa coniugale e la corresponsione di un assegno di mantenimento.

La pronuncia di addebito si sostanziava sulla condotta adulterina della signora, la quale aveva contratto altro matrimonio con un cittadino egiziano in costanza di quello con il marito; quest'ultimo scopriva solo dopo molto tempo il tipo di vita che conduceva la moglie quando si recava in vacanza in Egitto, ed a quel punto esplodeva la crisi coniugale, costellata da reciproche denunce e culminata con l'instaurazione del giudizio di separazione. 

Per il giudicante, la  bigamia rappresentava una circostanza di tale gravità da fondare, di per sé sola, la dichiarazione di addebitabilità della separazione, sussistendone il nesso di causalità con la crisi del rapporto coniugale.

La decisione veniva confermata dalla Corte di Appello di Roma, la quale non dava credito alle difese della donna, secondo cui il matrimonio serviva unicamente per ottenere la documentazione volta a precostituire una specie di salvacondotto necessario per viaggiare in sicurezza all'interno di quel Paese, in cui la sicurezza personale di una donna era ad alto rischio.

La moglie, ricorrendo in Cassazione, censurava la decisione per violazione e falsa applicazione delle norme disciplinanti la violazione dei doveri di fedeltà: la donna evidenziava come non fosse stata acquisita, nel corso del processo, alcuna prova diretta riguardo ai fatti costitutivi dell'addebito della separazione richiesto dal marito, sul quale, dunque, gravava l'onere di fornirne la dimostrazione.

Inoltre, la ricorrente sottolineava come i giudici di merito non avessero fornito spiegazione sui criteri inferenziali che li avevano portati a preferire una ricostruzione dei fatti (la relazione sentimentale) piuttosto che quella da lei sostenuta, essendosi limitati a valutare come inverosimile l'ipotesi alternativa legata ad una mera questione di sicurezza personale.

La Cassazione non condivide le doglianze avanzate. 

Gli Ermellini evidenziano come le censure prospettate non siano riconducibili ad alcun specifico vizio motivazionale posto che la ricorrente – piuttosto che compiere una specifica indicazione di fatti decisivi il cui esame sarebbe stato omesso dal giudice di merito – si è limitata sostanzialmente ad una critica al complessivo governo del materiale istruttorio operato dal giudice a quo, con il precipuo intento di opporre all'esaustiva valutazione fattuale contenuta nella sentenza impugnata una propria alternativa interpretazione, volta ad ottenerne una rivisitazione (e differente ricostruzione).

Ciò, tuttavia, determina un netto contrasto con l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un ulteriore grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge.

Con specifico riferimento al caso di specie, gli Ermellini evidenziano come gli assunti della moglie si risolvono chiaramente in una critica al complessivo accertamento fattuale operato dalla corte capitolina, con l'obiettivo di proporre una propria diversa valutazione., così pretendendo di trasformare surrettiziamente il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito

La Cassazione dichiara quindi inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità. 

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