Con la pronuncia n. 3566 dello scorso 11 febbraio in tema di responsabilità professionale dell'avvocato, la III sezione civile della Corte di Cassazione ha escluso che un legale fosse tenuto a risarcire il proprio cliente per aver omesso di richiedere la verificazione di talune scritture private disconosciute in giudizio, in quanto era stato accertato che, sebbene le negligenze del legale ci fossero effettivamente state, le stesse erano state ininfluenti sull'esito infausto della lite.
Si è difatti precisato che la responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone.
Nel caso sottoposto all'attenzione della Cassazione, un uomo agiva in giudizio per vedersi riconoscere la proprietà di due appartamenti che assumeva essergli stati ceduti in virtù di una scrittura privata; il convenuto disconosceva quella scrittura, sostenendo altresì che la stessa non conteneva un contratto, ma costituiva una semplice lettera di proposta.
La domanda attorea veniva rigettata.
L'attore citava, quindi, in giudizio il proprio legale per sentirne dichiarare la responsabilità professionale per la negligente assistenza prestata nel giudizio, per non aver il professionista richiesto la verificazione delle scritture disconosciute e non aver coltivato il giudizio, non comparendo neppure all'udienza di precisazione delle conclusioni; a tal fine si deduceva che, se il legale avesse diligentemente dato seguito al mandato, con molta probabilità sarebbe stata riconosciuta la proprietà degli appartamenti.
Sia in primo che in secondo grado si escludeva la responsabilità professionale del legale in quanto, sebbene fosse indiscusso che lo stesso avesse tenuto una condotta omissiva colpevole, per non aver proposto l'istanza di verificazione delle scritture disconosciute, cionondimeno non si era accertato, sulla base di un accertamento prognostico, il probabile (non certo) esito favorevole dell'azione giudiziale qualora il difensore avesse tenuto la condotta omessa; difatti l'attore, quand'anche fosse riuscito a dimostrare l'autenticità della sottoscrizione apposta sulla scrittura, avrebbe dovuto superare l'eccezione del convenuto secondo cui tale scrittura non conteneva un contratto, ma costituiva una semplice lettera di proposta.
Il cliente ricorreva in Cassazione denunziando violazione e falsa applicazione degli articoli 1176, comma 2 e 2236 c.c., assumendo di aver provato senza alcun ragionevole dubbio sia la negligenza dell'avvocato, sia il nesso di causalità tra la condotta negligente del legale ed il danno subito a seguito della soccombenza.
A tal fine deduceva di aver dimostrato la totale responsabilità dell'avvocato nel non aver coltivato il giudizio, nel non aver presenziato alle udienze e nel non aver proposto l'istanza di verificazione, avendo anche allegato la circostanza per cui i giudici avevano respinto le domande volte ad accertare la proprietà degli appartamenti solo perché la controparte aveva disconosciuto le scritture private e non era stata proposta l'istanza di verificazione.
La Cassazione non condivide i rilievi avanzati dal ricorrente.
In punto di diritto la Corte ricorda che la responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone.
Con specifico riferimento al caso di specie, la Cassazione rileva come la Corte di Appello pur avendo riconosciuto l'inadempimento del legale, ha rilevato come il cliente non avesse dimostrato - neanche nei termini di "più probabile che non" – che l'esito della causa sarebbe stato diverso nel caso in cui l'avvocato avesse richiesto la verificazione, in quanto nulla era stato eccepito sul contenuto di quella scrittura che, secondo l'opposta difesa, non rappresentava un contratto ma una semplice lettera di proposta.
Il ricorso viene, quindi, rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite e al versamento, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ove dovuto, per il ricorso.