Di Rosalia Ruggieri su Sabato, 26 Ottobre 2019
Categoria: Avvocatura, Ordini e Professioni

Avvocati, SC: “Nulla la determinazione globale e forfettaria del compenso per più mandati”.

Con l'ordinanza n. 25830 dello scorso 14 ottobre, la II sezione civile della Corte di Cassazione, pronunciandosi in relazione alla pattuizione dei compensi legali, ha specificato che nel regime anteriore all'entrata in vigore del decreto Bersani, il patto di determinazione del compenso di un avvocato in misura forfettaria e globale per tutte le prestazioni giudiziali e stragiudiziali rese in un determinato arco di tempo è nullo, ai sensi della legge n. 794 del 1942, art. 24 ed è sostituito di diritto, ai sensi dell'art. 1419, comma 2, c.c. dai minimi tariffari applicabili a ciascuna singola prestazione.

Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dallo svolgimento di una attività di consulenza e assistenza prestata da un Avvocato nei confronti di una Amministrazione municipale in numerosi giudizi civili e amministrativi, svolti sulla scorta di un contratto individuale di lavoro autonomo.

Il legale conveniva in giudizio il Comune deducendo che la regolazione del compenso pattuito nei suddetti contratti era nulla per violazione dei minimi tariffari previsti per l'attività degli avvocati e, a tal fine, chiedeva la condanna del convenuto al pagamento del compenso calcolato sulla base delle tariffe forensi.

Costituendosi in giudizio, il Comune escludeva, in virtù della natura complessa dell'incarico e l'offerta del professionista, l'applicazione dell'art. 24 della legge 794/1942, sottolineando come il necessario rispetto dei vincoli di bilancio della P.A.. aveva, volutamente, portato le parti a determinare il compenso per la prestazione complessiva al di sotto dei minimi fissati per ogni specifica attività compiuta.

In seconda istanza, l'ente pubblico evidenziava come il compenso ulteriore era stato oggetto di specifica rinuncia da parte del legale. 

 Il Tribunale di Roma accoglieva la domanda dell'avvocato; la pronuncia veniva ribaltata dalla Corte d'appello di Roma, secondo la quale la natura complessa dell'incarico e l'offerta del professionista non consentiva l'applicabilità della disciplina, vigente ratione temporis, dell'inderogabilità dei compensi, in quanto il corrispettivo della prestazione era stato concordato globalmente in importi predeterminati, sicché non si sarebbe potuto fare riferimento a quello che sarebbe stato il compenso dovuto per ogni singola attività, per inferirne la violazione dei minimi tariffari.

La Corte territoriale, a sostegno della propria tesi, richiamava anche il principio di diritto alla cui stregua i minimi tariffari possono formare oggetto di rinunzia da parte del professionista anche per ragioni di convenienza.

Ricorrendo in Cassazione, il legale eccepiva violazione e falsa applicazione dell'art. 24 della legge 794/1942 in relazione agli artt. 1418 e 1419 c.c., deducendo la nullità della clausola del contratto d'opera professionale da lei stipulato con il Comune che fissava un compenso forfettario inferiore ai minimi tariffari.

Infine, il ricorrente criticava l'affermazione della corte territoriale secondo cui nella conclusione dell'accordo sul compenso forfettario sarebbe stata implicita la sua rinuncia al diritto ad un compenso non inferiore ai minimi tariffari, deducendo come, dagli atti, non era emerso alcun suo atto di rinuncia.

La Cassazione condivide la doglianza del ricorrente.

 La Corte premette come, nel caso sottoposto alla sua attenzione, le prestazioni professionali erano state tutte rese in epoca anteriore all'entrata in vigore del decreto Bersani che, liberalizzando le tariffe, ha abrogato le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano la fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime per le attività professionali e intellettuali.

Ne deriva che la vicenda dedotta in giudizio soggiace, ratione temporis, alla disciplina previgente e, in particolare, al disposto di cui all'art. 24 della legge 794/1942 ai sensi del quale gli onorari minimi stabiliti per le prestazioni degli avvocati sono inderogabili con la conseguenza che ogni convenzione contraria è nulla.

La Cassazione evidenzia come – per ragioni di coerenza con la ratio legis, collegata ad esigenze di tutela del decoro della professione forense – il principio dell'inderogabilità delle relative tariffe minime va riferito tanto alle prestazioni giudiziali quanto a quelle stragiudiziali, anche qualora le stesse siano svolte a beneficio di una pubblica amministrazione soggetta a vincoli di bilancio.

Ne deriva che un patto di determinazione forfettaria e globale del compenso di un avvocato per tutte le prestazioni rese ad un medesimo cliente in un determinato arco temporale è colpito da nullità originaria per violazione delle norme imperative che impongono i suddetti minimi. La nullità affligge tale pattuizione per il fatto che essa disancora dai minimi tariffari l'importo del compenso dovuto al professionista, quantificando quest'ultimo in una misura che non costituisce un "minimo garantito" ma, appunto, un forfait; dalla nullità originaria consegue la sostituzione automatica della clausola nulla con la disciplina imperativa dei minimi tariffari, secondo il meccanismo indicato dal secondo comma dell'art. 1419 c.c..

In merito alla rinuncia – premesso che il diritto dell'avvocato al compenso in misura non inferiore ai minimi tariffari è un diritto disponibile e, pertanto, può costituire oggetto di valida rinuncia – la Corte specifica che la rinuncia dell'avvocato al diritto al compenso non inferiore ai minimi tariffari inderogabili postula la piena consapevolezza, da parte del rinunciante, dell'oggetto della rinuncia medesima e si risolve in una volizione ulteriore e distinta rispetto a quella espressa nella pattuizione che fissa il compenso in misura inferiore ai minimi; cosicché detta rinuncia, pur potendo manifestarsi per fatti concludenti, non può ravvisarsi in re ipsa nel fatto stesso della conclusione della convenzione che direttamente o indirettamente deroga a tali minimi.

In conclusione la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza gravata e rimette la causa ad altra Sezione della corte di appello di Roma, che provvederà anche al regolamento delle spese del giudizio di cassazione.

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