Con l'ordinanza n. 22401 depositata lo scorso 6 settembre, la VI sezione civile della Corte di Cassazione ha imposto ad un marito il versamento di un assegno divorzile alla moglie sebbene la stessa, in sede di separazione consensuale, avesse già beneficiato di un ingente assegno e si era impegnata a non richiedere emolumenti in fase di divorzio. Si è difatti precisato che l'accordo assunto in sede di separazione consensuale, nella parte in cui esclude per il futuro di poter richiedere emolumenti in sede di divorzio, deve ritenersi nullo per illiceità della causa; la corresponsione di un assegno una tantum può avvenire, inoltre, soltanto in sede di giudizio di divorzio.
Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dalla separazione personale di una coppia di coniugi, nel corso della quale il giudice omologava gli accordi intervenuti tra le parti, consistenti nel versamento di 200 milioni di lire alla moglie.
Nel corso del successivo giudizio instauratosi ai fini della dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la donna chiedeva, tra le altre cose, la corresponsione di un assegno divorzile, ad integrazione dei redditi a lei già corrisposti a titolo di pensione di invalidità.
Il Tribunale di Bologna rigettava la richiesta avanzata dalla donna: il giudice escludeva la sussistenza di uno stato di bisogno della ricorrente, in ragione della percezione della pensione d'invalidità e di quanto ricevuto a seguito degli accordi assunti in sede di separazione consensuale.
A sostengo della propria decisione il Giudice rimarcava la stessa volontà assunta dai coniugi in sede di separazione, allorquando, contestualmente alla previsione di un assegno pari a 200 milioni di lire, la moglie si impegnava a non richiedere ulteriori emolumenti in sede di divorzio.
La Corte d'Appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, poneva a carico dell'uomo la somma di 200 Euro mensili a titolo di assegno divorzile: il collegio giudicante riteneva doveroso, alla luce del criterio assistenziale così come declinato nella pronuncia n. 11504 del 2017, riconoscere un assegno alla donna, in quanto la stessa risultava priva di autosufficienza economica, inidonea al lavoro e affetta da serie psicopatologie, oltre che priva di una stabile abitazione e percettrice di una pensione di ammontare esiguo.
Ricorrendo in Cassazione, l'uomo censurava la decisione impugnata per violazione dell' art. 5 della legge n. 898 del 1970: secondo il ricorrente, infatti, la Corte d'Appello aveva errato nell'escludere che l'ex moglie versasse in una situazione di non autosufficienza economica, nonostante la corresponsione della pensione d'invalidità e delle somme già corrisposte in sede di separazione.
In seconda istanza, l'uomo deduceva la nullità della sentenza impugnata perché non era stato preventivamente accertato se alla controricorrente fosse stato nominato un amministratore di sostegno, circostanza, questa, che avrebbe escluso la validità della sottoscrizione del ricorso introduttivo del giudizio.
La Cassazione non condivide le difese formulate dal ricorrente.
I Supremi Giudici evidenziano che l'accordo assunto in sede di separazione consensuale, nella parte in cui esclude per il futuro di poter richiedere emolumenti in sede di divorzio, deve ritenersi nullo per illiceità della causa; la corresponsione di un assegno una tantum può avvenire, inoltre, soltanto in sede di giudizio di divorzio.
Alla luce di tanto, del tutto corretta si palesa la decisione impugnata nella parte in cui – prescindendo dal versamento iniziale di 200 milioni e dalle altre dichiarazioni rese in sede di separazione – si è ritenuta la sussistenza di una condizione di non autosufficienza economica dell'ex moglie: in presenza di una logica ed esaustiva motivazione, infatti, non è possibile in sede di legittimità contestare la valutazione effettuata dai giudici di merito.
Compiute queste precisazioni, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio.