Con l'ordinanza n. 19755 depositata lo scorso 23 luglio, la VI sezione civile della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla congruità dell'importo determinato dalla Corte territoriale in relazione ad un assegno divorzile, ha rigettato le richieste del marito secondo cui l'ex moglie, avendo intrapreso un'attività di badante e baby-sitter, avesse raggiunto un'indipendenza economica sufficiente a revocare l'assegno concesso.
Nel caso sottoposto all'attenzione della Cassazione, il Tribunale di Pordenone pronunciava lo scioglimento del matrimonio di una coppia di coniugi, ponendo a carico del marito il pagamento di un assegno divorzile di 327.08 Euro rivalutabili annualmente secondo indici ISTAT.
La pronuncia veniva appellata dall'uomo, per ottenere la revoca dell'assegno divorzile, in ragione del fatto che entrambi i coniugi erano da ritenersi economicamente autosufficienti.
La Corte di Appello di Trieste, in parziale accoglimento della domanda dell'appellante, riformava la sentenza impugnata e, per l'effetto, riduceva a euro 250 l'importo dovuto a titolo di assegno di divorzio.
Ricorrendo in Cassazione, l'uomo censurava la decisione della Corte di merito per aver stabilito l'importo dell'assegno facendo applicazione del criterio del "tenore di vita", così presupponendo che la finalità dell'assegno divorzile fosse quello di mantenere il tendenziale tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio: il ricorrente evidenziava come, in virtù dell'arresto avutosi con la sentenza n. 11504/2017, quel criterio era stato superato, avendo la Cassazione stabilito che il criterio da seguire per il riconoscimento e la quantificazione del diritto all'assegno divorzile fosse quello del raggiungimento della indipendenza economica del coniuge richiedente.
Alla luce di tanto, il marito censurava la decisione impugnata per omesso esame della reale situazione economica della richiedente, la quale – proprio in virtù del citato arresto –avrebbe dovuto provare di non avere mezzi adeguati a garantirle l'autosufficienza economica e di non poterseli procurare per ragioni oggettive.
La Cassazione non condivide le difese formulate dal ricorrente.
I Supremi Giudici ricordano, infatti, che il principio di diritto contenuto nella sentenza n. 11504/2017 è stato superato dal noto arresto delle Sezioni Unite del 2018 (pronuncia n. 18287/2018), con la quale la Cassazione ha ribadito che il riconoscimento dell'assegno di divorzio in favore dell'ex coniuge richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante, e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive: il giudizio deve essere espresso alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all'età dell'avente diritto.
Con specifico riferimento al caso di specie, gli Ermellini evidenziano come – sebbene la Corte di appello abbia fatto riferimento al criterio del tenore di vita che, dopo la pronuncia delle Sezioni Unite del 2018, non risulta più attuale – ciononostante si è proceduto ad una attenta valutazione circa l'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.
In particolare, la sentenza impugnata – uniformandosi all'ultimo arresto delle Sezioni Unite - ha tenuto conto delle effettive capacità reddituali e delle risorse patrimoniali della richiedente: i giudici di merito, oltre a evidenziare una disparità di risorse economiche tra i coniugi, hanno rilevato come la moglie fosse priva di capacità lavorative specifiche.
Su tale ultimo aspetto, si è difatti evidenziato come fosse irrilevante la circostanza per cui la donna, saltuariamente, fosse impegnata nell'attività di badante e di baby sitter, uniche mansioni compatibili con la sua età, la sua formazione lavorativa e il mercato del lavoro nella regione di residenza: secondo i giudicanti, infatti, tale impiego le assicurava un reddito insufficiente a garantirle un livello di vita che la elevasse al di sopra del livello di dignità e autosufficienza, tenendo conto della stima del reddito medio ritraibile dalla predetta attività lavorativa saltuaria.
Compiute queste precisazioni, la Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.