Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con sentenza n. 16348/16, depositata il 4 agosto 2016.
Nel caso de quo, due dipendenti di una azienda municipalizzata di igiene urbana adivano il Tribunale di Torino, lamentando di essere stati ritenuti inidonei alle mansioni di assegnazione, e non idonei a svolgere qualsiasi attività lavorativa, e chiedevano che l´azienda datrice di lavoro fosse condannata a pagar loro l´indennità una tantum prevista dall´art. 40 c.c.n.l. di riferimento, in quanto la procedura di riallocazione era stata infruttuosa.
La Suprema Corte, a correzione di quanto stabilito dai Giudici in primo grado, ha preliminarmente osservato che, in identica controversia instaurata ex art. 420 bis c.p.c., in tema di estinzione dei rapporto di lavoro per sopravvenuta inidoneità del lavoratore, l´art. 40 del c.c.n.l. per le aziende municipalizzate di igiene urbana - alla cui stregua il lavoratore riconosciuto inidoneo alle mansioni di assunzione o di successiva assegnazione ha diritto ad una somma "una tantum" in caso di infruttuoso esperimento della procedura di riallocazione - era stato da essa interpretato nel senso che l´indennità compete in tutti i casi nei quali non sia stato raggiunto l´accordo per lo svolgimento di mansioni alternative, non distinguendo il contratto collettivo tra il caso in cui l´azienda non abbia offerto al lavoratore una mansione diversa e il caso in cui il lavoratore l´abbia rifiutata.
In ogni caso, poi, ai sensi del comma 11 dell´art. 40 CCNL, l´offerta da parte dell´Azienda può riguardare - ha aggiunto il Collegio - anche mansioni non equivalenti, ma inferiori, proprio così spiegandosi la necessità di acquisire il consenso del lavoratore ad espletarle. Nel contesto di tale disciplina, quindi, l´eventuale rifiuto opposto dal lavoratore non può mai essere considerato pretestuoso, poiché è il consenso la condizione indispensabile per la legittimità dell´assegnazione. Riconoscendosi, poi, legittimo il patto di demansionamento che, ai soli fini di evitare un licenziamento, attribuisce al lavoratore mansioni, e conseguente retribuzione, inferiori a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente acquisito, prevalendo l´interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall´art. 2103 cod. civ.; e ciò non solo ove sia promosso dalla richiesta del lavoratore - il quale deve manifestare il suo consenso non affetto da vizi della volontà - sebbene anche allorché l´iniziativa sia stata presa dal datore di lavoro, sempreché vi sia il consenso dei lavoratore e sussistano le condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza dell´accordo.
Le mansioni alternative che l´Azienda propone al lavoratore inidoneo alle mansioni per le quali venne assunto o alle quali è stato successivamente adibito costituiscono, ha ribadito la Sezione, la rappresentazione della residua possibilità occupazionale, unica alternativa al licenziamento, altrimenti inevitabile. La clausola contrattuale tendendo ad integrare, attraverso l´acquisizione del consenso del lavoratore, le condizioni affinché possa ritenersi legittima anche un´eventuale offerta di mansioni non equivalenti.
La corresponsione dell´una tantum non costituisce, dunque, a parere dei giudici di piazza Cavour, un premio per un rifiuto opposto dal prestatore alla proposta dell´azienda di mantenerlo in servizio, ma una erogazione compensativa della perdita del posto di lavoro sia nell´ipotesi che non siano reperite in azienda soluzioni alternative adeguate alla residua capacità lavorativa del soggetto, sia in ogni altro caso in cui la soluzione offerta non venga accettata dal lavoratore, posto che in tale caso è mancata l´integrazione della fattispecie complessa che rende legittima la proposta aziendale (Cass. n. 1935813).
La Corte Suprema, non avendo ragioni per discostarsi da tale consolidato orientamento, ha quindi accolto il ricorso.
Sentenza allegata.
Nel caso de quo, due dipendenti di una azienda municipalizzata di igiene urbana adivano il Tribunale di Torino, lamentando di essere stati ritenuti inidonei alle mansioni di assegnazione, e non idonei a svolgere qualsiasi attività lavorativa, e chiedevano che l´azienda datrice di lavoro fosse condannata a pagar loro l´indennità una tantum prevista dall´art. 40 c.c.n.l. di riferimento, in quanto la procedura di riallocazione era stata infruttuosa.
La Suprema Corte, a correzione di quanto stabilito dai Giudici in primo grado, ha preliminarmente osservato che, in identica controversia instaurata ex art. 420 bis c.p.c., in tema di estinzione dei rapporto di lavoro per sopravvenuta inidoneità del lavoratore, l´art. 40 del c.c.n.l. per le aziende municipalizzate di igiene urbana - alla cui stregua il lavoratore riconosciuto inidoneo alle mansioni di assunzione o di successiva assegnazione ha diritto ad una somma "una tantum" in caso di infruttuoso esperimento della procedura di riallocazione - era stato da essa interpretato nel senso che l´indennità compete in tutti i casi nei quali non sia stato raggiunto l´accordo per lo svolgimento di mansioni alternative, non distinguendo il contratto collettivo tra il caso in cui l´azienda non abbia offerto al lavoratore una mansione diversa e il caso in cui il lavoratore l´abbia rifiutata.
In ogni caso, poi, ai sensi del comma 11 dell´art. 40 CCNL, l´offerta da parte dell´Azienda può riguardare - ha aggiunto il Collegio - anche mansioni non equivalenti, ma inferiori, proprio così spiegandosi la necessità di acquisire il consenso del lavoratore ad espletarle. Nel contesto di tale disciplina, quindi, l´eventuale rifiuto opposto dal lavoratore non può mai essere considerato pretestuoso, poiché è il consenso la condizione indispensabile per la legittimità dell´assegnazione. Riconoscendosi, poi, legittimo il patto di demansionamento che, ai soli fini di evitare un licenziamento, attribuisce al lavoratore mansioni, e conseguente retribuzione, inferiori a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente acquisito, prevalendo l´interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall´art. 2103 cod. civ.; e ciò non solo ove sia promosso dalla richiesta del lavoratore - il quale deve manifestare il suo consenso non affetto da vizi della volontà - sebbene anche allorché l´iniziativa sia stata presa dal datore di lavoro, sempreché vi sia il consenso dei lavoratore e sussistano le condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza dell´accordo.
Le mansioni alternative che l´Azienda propone al lavoratore inidoneo alle mansioni per le quali venne assunto o alle quali è stato successivamente adibito costituiscono, ha ribadito la Sezione, la rappresentazione della residua possibilità occupazionale, unica alternativa al licenziamento, altrimenti inevitabile. La clausola contrattuale tendendo ad integrare, attraverso l´acquisizione del consenso del lavoratore, le condizioni affinché possa ritenersi legittima anche un´eventuale offerta di mansioni non equivalenti.
La corresponsione dell´una tantum non costituisce, dunque, a parere dei giudici di piazza Cavour, un premio per un rifiuto opposto dal prestatore alla proposta dell´azienda di mantenerlo in servizio, ma una erogazione compensativa della perdita del posto di lavoro sia nell´ipotesi che non siano reperite in azienda soluzioni alternative adeguate alla residua capacità lavorativa del soggetto, sia in ogni altro caso in cui la soluzione offerta non venga accettata dal lavoratore, posto che in tale caso è mancata l´integrazione della fattispecie complessa che rende legittima la proposta aziendale (Cass. n. 1935813).
La Corte Suprema, non avendo ragioni per discostarsi da tale consolidato orientamento, ha quindi accolto il ricorso.
Sentenza allegata.
Documenti allegati
Dimensione: 17,09 KB