Con ordinanza n. 616 del 14 gennaio 2019, la Corte di Cassazione, a Sezioni unite, ha stabilito che, in caso di straripamento di un canale – appartenente al demanio regionale - confinante con una proprietà privata, dovuto ad alluvione, dei danni causati al privato risponde la Regione in qualità di custode ex articolo 2051 del codice civile e di unico ente tenuto alla relativa manutenzione dell'argine. Una responsabilità, questa, che non può essere esclusa invocando il caso fortuito in quanto l'alluvione costituisce ipotesi di caso fortuito solo quando essa assume determinate caratteristiche.
Ma vediamo nel dettaglio la questione sottoposta all'attenzione dei Giudici di legittimità
I fatti di causa.
La società affittuaria dei fondi agricoli confinanti con un canale, appartenente al demanio regionale, ha agito in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa dello straripamento di tale canale. In pratica, è accaduto che in conseguenza di un'alluvione, i fondi agricoli su menzionati sono stati invasi da fango e acqua tanto che tale situazione ha comportato «la perdita dei raccolti e la impossibilità di mettere a coltura i terreni nella successiva annata agraria». L'affittuaria ha ritenuto che, nella fattispecie in esame, fosse responsabile i) la Regione, proprietaria del canale in questione, inserito nell'elenco delle acque pubbliche regionali, e ii) il Consorzio per la bonifica, ente preposto alla manutenzione dei corsi d'acqua di interesse pubblico. Sia in primo che in secondo grado, è stata accertata e dichiarata la responsabilità della Regione ed esclusa quella del Consorzio.
Il caso è giunto dinanzi alla Corte di Cassazione.
La decisione della SC.
Innazitutto, è opportuno far rilevare che per liberarsi dalla responsabilità del custode, ex articolo 2051 codice civile – come quella della Regione nel caso di specie – si può invocare il caso fortuito, ossia un evento oggettivamente imprevedibile. Nelle ipotesi di alluvioni, secondo il recente orientamento della giurisprudenza (Cass., 10 febbraio 2018, n. 2482), esse «integrano l'ipotesi di caso fortuito, ai sensi dell'art. 2051 c.c., allorquando assumano i caratteri dell'imprevedibilità oggettiva e dell'eccezionalità, da accertarsi con indagine orientata essenzialmente da dati scientifici di tipo statistico (i c.d. dati pluviometrici) riferiti al contesto specifico di localizzazione della cosa oggetto di custodia, la quale va considerata nello stato in cui si presenta al momento dell'evento atmosferico». Ciò sta a significare che ove da tali dati fosse impossibile prevedere le precipitazioni della stessa portata di quelle di cui alla fattispecie in esame, allora potrebbe essere invocato il caso fortuito. Orbene, nella questione sottoposta all'attenzione della Suprema Corte, è stato dimostrato che l'evento atmosferico in oggetto non è stato così tanto imprevedibile. Infatti, secondo le indagini sui dati pluviometrici effettuate dal Ctu (Consulente tecnico d'ufficio), i valori delle precipitazioni all'epoca dei fatti avrebbero dovuto destare allerta in quanto corrispondenti al tempo di ritorno, vale al dire al periodo in cui con molta probabilità le acque del canale avrebbero superato le soglie sino a straripare. Una prevedibilità, questa, che non può essere esclusa neppure dalla «adozione, da parte dell'autorità amministrativa, di delibere dichiarative dello stato di calamità». E ciò in considerazione del fatto che tali delibere non costituiscono la prova del caso fortuito, ma sono espressione degli ingenti danni che l'evento meteorico ha causato alla popolazione; concetto, questo, ben diverso dalla causa dei danni.
Lo stesso decreto ministeriale del 4 agosto 2005, adottato in base al d.lgs. n. 102/2004 (recante interventi finanziari a sostegno delle imprese agricole), «ha posto in rilievo che "l'eccezionalità degli eventi calamitosi il cui decreto si riferisce è valutata esclusivamente in riferimento all'ingente entità dei danni prodotti alle strutture aziendali e alle infrastrutture", ma non con riguardo alle "cause" che hanno determinato l'evento alluvionale». Ciò premesso, pertanto, a parere dei Giudici di legittimità, restando escluso il caso fortuito, la responsabilità dei danni spetta in via esclusiva alla Regione. L'esclusività di tale responsabilità discende dal fatto che è quest'ente che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, deve provvedere al mantenimento delle condizioni di regolarità degli argini e di qualunque opera idraulica costruita entro gli alvei e contro le sponde (S.U., 6 luglio 2015, n. 13860). Un'unica eccezione si ha solo nell'ipotesi in cui la manutenzione venga affidata in via esclusiva al consorzio di bonifica fornitore delle opere idrauliche. In tali casi, quest'ultimo risponderà dei danni causati dallo straripamento delle acque. Ma questa eccezione non riguarda la questione in esame, dal momento che
- il corso d'acqua di cui stiamo discorrendo è un corso, che all'epoca dei fatti, era mantenuto allo stato naturale, senza la realizzazione di alcuna opera idraulica o di altra natura;
- non è stato dimostrato che il Consorzio di bonifica abbia provveduto ad eseguirvi opere di sistemazione idraulica.
Ne consegue, quindi, che unica responsabile dei danni subiti dalla società è la Regione. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, pertanto, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso e ha confermato la decisione impugnata.