Riferimenti normativi: Art.32 D.P.R.n.600/73
Focus: Non sono rari i controlli effettuati sui conti correnti privati dall'Amministrazione finanziaria. Il controllo investe tutti i versamenti di denaro o i bonifici, ricevuti sul conto corrente privato, che fanno presumere si tratti di pagamenti, cioè di "reddito" ricevuto dal contribuente. Se, quindi, il privato non ha dato notizia al fisco di tali accrediti con la dichiarazione dei redditi, può subire un accertamento fiscale. Su ciò si è pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza n.9903 del 27 maggio 2020.
Principi generali: Rientra tra i poteri degli uffici dell'Agenzia delle Entrate, ai sensi dell'art.32, comma1, D.P.R. n.600/73, procedere ad indagini sui conti bancari privati attraverso l'Anagrafe dei rapporti finanziari inviati dalle banche. Il controllo sui conti è retroattivo e si estende a cinque anni prima per chi ha regolarmente presentato la dichiarazione dei redditi ed a sette anni prima per chi non ha mai presentato la dichiarazione dei redditi. A seguito di tali indagini possono essere emessi accertamenti basati sulla presunzione legale scaturente dai dati e dagli elementi risultanti dai conti bancari accertati, per i quali l'onere probatorio per l'Amministrazione finanziaria è soddisfatto per legge (C.T.P. Rieti n. 61/2018).Questa presunzione prevede, in pratica, che l'ufficio finanziario possa inviare un questionario ai contribuenti con cui essi sono invitati a fornire notizie e dati rilevanti ai fini dell'accertamento. Si determina, in questo modo, un'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente. Spetta, perciò, a quest'ultimo provare che le movimentazioni del conto non sono riferibili ad operazioni imponibili.
Nel caso di specie l'Agenzia delle Entrate, all'esito di indagini bancarie ed a seguito di invio di questionario, emetteva un avviso di accertamento nei confronti di una contribuente la quale, sebbene non dichiarasse redditi e non svolgesse attività lavorativa, aveva effettuato operazioni di versamento su due conti correnti bancari. La contribuente impugnava in primo grado l'avviso di accertamento eccependo, tra l'altro, l'assenza di elementi di fatto idonei a fondare la pretesa tributaria a fronte delle prove documentali, già offerte in risposta al questionario, circa la provenienza degli importi accreditati sui conti correnti. La Commissione provinciale adita rigettava il ricorso con sentenza che veniva impugnata dalla contribuente dinanzi al giudice di seconde cure che confermava la sentenza di primo grado.La contribuente ha, dunque, fatto ricorso alla Suprema Corte di Cassazione.
Secondo la tesi della ricorrente l'Amministrazione ha l'obbligo non solo di indicare, ma anche di dimostrare che si tratti di proventi di attività generatrici di reddito non dichiarate, costituenti espressione di una più ampia capacità contributiva.Nella fattispecie, invece, ad avviso della ricorrente, la presunzione derivante dall'art. 32 citato sarebbe stata superata da prova contraria, essendo stato documentato, con risposta al questionario inviato dall'Agenzia delle Entrate, che la stessa non era l'unica persona ad operare sui conti correnti, in quanto anche il suo convivente poteva effettuarvi disposizioni, in concreto più volte eseguite. Nonostante la risposta al questionario fosse stata fornita regolarmente nei termini previsti, l'avviso di accertamento era stato emesso e notificato egualmente prima del decorso del termine di 60 giorni prescritto dalla norma.
La Suprema Corte ha riconosciuto legittima l'utilizzazione da parte dell'Amministrazione finanziaria dei movimenti dei conti correnti bancari e dei dati risultanti dalle operazioni bancarie. Infatti, in tema d'imposta sui redditi, la presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari, giusta l'art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 600/1973, non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l'accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma 1, n. 2; tuttavia, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l'efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto ad imposta o sono irrilevanti (Cass., sez. 5, n. 1519 del 20/01/2017; Cass. n. 29572 del 16/11/2018).
Ciò comporta che, in materia di accertamenti bancari, grava sul contribuente l'onere probatorio di superare la presunzione legale posta dalla disposizione normativa in esame a favore dell'Erario (che, avendo fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall'art. 2729 cod. civ.), offrendo non una prova generica, ma una prova analitica idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili. Ovviamente, in mancanza di espresso divieto normativo ed in ossequio al principio di libertà dei mezzi di prova, al contribuente è consentito fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici. Nel caso di specie, tuttavia, la Corte di Cassazione ha rilevato che la Commissione regionale non aveva proceduto ad una valutazione rigorosa delle prove apportate dalla contribuente a giustificazione delle operazioni bancarie oggetto di contestazione, avendo affermato, con valutazione apodittica e generica, che le prove offerte non erano «valide». La ricorrente aveva prodotto in giudizio la dichiarazione giurata a firma del convivente, con la quale quest'ultimo confermava l'avvenuta dazione in contanti in favore della stessa di ingenti somme a titolo di liberalità al fine di consertirle di fare fronte alle esigenze personali ed a quelle della madre. La valenza indiziaria riconosciuta alle dichiarazioni di terzi anche in favore della parte contribuente costituisce concreta attuazione dei principi del giusto processo ex art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), e garantisce il principio di parità delle armi processuali, nonché l'effettività del diritto di difesa. Per tali motivi, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale per un nuovo esame.