Secondo una ricerca condotta da ADP – leader mondiale nel settore delle risorse umane – in Italia oltre il 44% dei lavoratori dipendenti dichiara di essere afflitto da stress lavorativo.
Molto spesso, la fonte di tale malessere non deriva da un eccessivo carico di lavoro, ma da un ambiente "tossico", ossia caratterizzato da relazioni ostili e da atteggiamenti per niente collaborativi.
Tali situazioni non solo incidono negativamente sulla produttività e sull'organizzazione del lavoro, ma sempre più spesso causano danni alla salute dei lavoratori.
Si sono, perciò, moltiplicate, nel tempo, le azioni giudiziarie dirette ad ottenere il risarcimento del danno da stress lavorativo, così aprendo la strada all'elaborazione di una nuova figura di illecito civile, fonte di responsabilità per il datore di lavoro, denominata "straining" distinta e diversa da quella del "mobbing".
Infatti, mentre l'elemento materiale del mobbing è rappresentato dai comportamenti molesti o aggressivi dei colleghi o dei superiori gerarchici, nello straining l'elemento caratterizzante è l'ambiente lavorativo e lo stress ad esso associato.
Nell'ordinanza n. 3791/2024, la sezione lavoro della Corte di Cassazione, ha affermato non solo che la riscontrata assenza degli estremi del mobbing non fa venire meno la necessità per il giudice di valutare e accertare l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere, anche solo colposamente, omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute dei lavoratori, così ribadendo la sostanziale autonomia di tale figura di illecito, ma ha ribadito altresì la possibilità per il giudice di effettuare una diversa qualificazione della fattispecie, senza incorrere nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
I principi di massima.
In caso di accertata insussistenza dell'ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un'ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, erano necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore; su quest'ultimo grava l'onere della prova della sussistenza del danno e del nesso causale tra questo e l'ambiente di lavoro, mentre grava sul datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie.
Non integra violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. l'aver qualificato la fattispecie come straining mentre in ricorso si sia fatto riferimento al mobbing.
Corte di Cassazione, sez. lavoro, ord. del 12 febbraio 2024, n. 3791.
Il caso.
La Corte d'appello, confermando la decisione di primo grado, rigettava il ricorso volto ad ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa di comportamenti vessatori asseritamente adottati dal personale del MIUR nei confronti di un'assistente amministrativa.
Secondo il giudice del secondo grado, pur nonpotendosi negare l'evento lesivo della salute della ricorrente, né il nesso causale tra le condizioni di lavoro e il danno alla salute (elementi confermati dalla CTU), la domanda doveva essere rigettata, perché non era configurabile una fattispecie di mobbing, difettando la prova sia del carattere oggettivamente persecutorio dei comportamenti, sia della sussistenza dell'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
La lavoratrice si era perciò rivolta alla Cassazione, lamentando, sotto molteplici aspetti, la violazione degli artt. 2087, 2697 del codice civile.
La decisione della Cassazione.
Secondo il collegio, gli aspetti ed i comportamenti allegati dalla lavoratrice, andavano valutati con riguardo alla più ampia responsabilità posta a carico del datore di lavoro dall'art. 2087 c.c. e facendo corretta applicazione della norma sulla ripartizione degli oneri probatori in materia e non solo, come aveva fatto la corte territoriale, con esclusiva attenzione al prospettato intento persecutorio, pertanto, rigettando la domanda di risarcimento del danno sulla base del solo accertamento negativo dei presupposti del mobbing (e in particolare della volontà persecutoria unificante i comportamenti lesivi), senza negare il danno alla persona e il nesso causale con la prestazione lavorativa, la Corte d'Appello, era incorsa in una errata applicazione dell'art. 2087 c.c. e della relativa regola di ripartizione degli oneri probatori.
Anzitutto, sul piano processuale, secondo gli Ermellini, il giudice, anche nel caso in cui la parte abbia qualificato la fattispecie come mobbing, può, senza incorrere in una violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato contenuto nell'art. 112 del codice di procedura civile, ciò in quanto si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni stressogene che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio.
Dal punto di vista sostanziale, la Cassazione ha affermato che, sebbene l'art. 2087 c.c. non preveda un'ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro per i danno subiti dal lavoratore a causa dell'esecuzione della prestazione lavorativa, tuttavia pone a suo carico l'onere di fornire la prova di avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Tra tali misure, hanno ricordato i giudicanti, rientra senz'altro la prevenzione e, ove possibile, la rimozione di un contesto di conflittualità all'interno di un istituto, dovuto al contrasto tra dirigente scolastico e responsabile dei servizi amministrativi.
Accolto, dunque, il motivo di ricorso, la Corte ha cassato la sentenza con rinvio alla Corte d'appello che, in diversa composizione, dovrà decidere, attenendosi al seguente principio di diritto:
"in caso di accertata insussistenza dell'ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un'ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, erano necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore; su quest'ultimo grava l'onere della prova della sussistenza del danno e del nesso causale tra questo e l'ambiente di lavoro, mentre grava sul datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie".