"Oggi si compie un anno, un lungo anno, della guerra di aggressione che ha visto la Russia aggredire l'Ucraina.
Nella nostra Europa non si vedeva una guerra con cui uno Stato aggredisse un altro Stato per conquistarne territori o addirittura per annetterlo interamente; non si vedevano fenomeni del genere dagli eventi drammatici che hanno preceduto e condotto la Seconda guerra mondiale." Così il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il 24 febbraio 2023, ad un anno del conflitto russo-ucraino.
Da più parti si cerca di poter stabilire il numero di vittime e di feriti, dell'una e dell'altra parte.
Nessuna certezza per cui bisogna fidarsi di stime poche, o pochissime, attendibili. Si parla di centomila morti sia russi sia ucraini.
Una mera precisazione. Ma doverosa. Nessuna intenzione di voler entrare nel merito dei torti e delle ragioni. Del numero dei morti o dei feriti, dell'una e dell'altra parte. Viviamo tempi in cui gli aspetti ideologici di questo conflitto sovrastano ogni aspetto etico-morale, di opportunità di poter piangere i morti serenamente alla ricerca di ricordi che ci aiutino all'elaborazione del lutto, dell'una e dell'altra parte.
Tempi in cui il sapore di mero protagonista aiuta non poco, sui social, soprattutto, ma non solo, scrivendo di tutto e di più, aiutando, e non di poco, la banalizzazione di una complessità non di poco conto.
E se tentiamo di riflettere sulle considerazioni del Presidente Mattarella, è perché l'accenno alla Seconda guerra mondiale ci riporta alla biografia, alla poesia, alle traduzioni dei classici, greci e latini di Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la Letteratura nel 1959.
Quasimodo era nato a Modica, in provincia di Ragusa, il 20 agosto 1901.
Il padre era capostazione e nel dicembre del 1908 fu trasferito dalla stazione ferroviaria di Gela a quella di Messina, dove, il 28 dicembre 1908, Quasimodo aveva sette anni, si verifica quel devastante terremoto che distrusse l'intera città. Città ed evento dolorosissimi che ricorderà con questi versi: "Dove / sull'acque viola / era Messina, tra fili spezzati / e macerie / tu vai lungo i binari / e scambi col tuo berretto di gallo / isolano. Il terremoto ribolle / da tre giorni, è dicembre d'uragani e mare avvelenato".
Questi versi, fotografano una realtà altamente drammatica, il terremoto è stato un fenomeno naturale, devastante come una guerra, ha mietuto vittime, distrutto, abitazioni, chiese, paesaggi…! Ricordi tristi, e dolorosi, che Quasimodo si porterò appresso tutta la vita.
E se ritorniamo alla Seconda guerra mondiale, ricordiamoci, oggi che sfioriamo il rischio d'un conflitto nucleare, la lirica. "Uomo del mio tempo" che Salvatore Quasimodo scrisse proprio alla fine di quel conflitto e ci ammonisce come l'uomo, modificando nei millenni le armi di distruzione è rimasto quel primitivo che non esita dire ai fratelli: "Andiamo ai campi"! Ieri come oggi.
Uomo del mio tempo
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t'ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T'ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all'altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell'eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.