Di Alessandra Garozzo su Domenica, 28 Luglio 2019
Categoria: Giurisprudenza Cassazione Penale

Quando la gelosia diventa reato

In linea generale si esclude che gli stati emotivi possano avere un effetto determinante nel mondo giuridico. Importante su tale punto è la sentenza n. 32781/19 della Suprema Corte con la quale vengono ricondotti al reato di cui all'art. 572 c.p. gli atteggiamenti del partner che si esplicano in una gelosia morbosa: vale a dire quei comportamenti che finiscono per imporre un pesante controllo dell'altra persona con conseguenze lesive sulla vita relazionale di quest'ultima. I comportamenti di cui sopra, nel caso di specie, erano stati tenuti dall'imputato nei confronti della convivente. In primo grado in realtà essi non erano stati considerati lesivi né comunque sussumibili sotto l'egida dell'art. 572 c.p. L'assoluzione, che difatti aveva toccato l'imputato, era avvenuta con formula piene: "il fatto non sussiste". 

Adiva la Suprema Corte con apposito ricorso il Pubblico Ministero il quale lamentava un'inesatta denominazione del concetto di maltrattamenti: spiegava infatti come erroneamente il Tribunale avesse considerato le ricostruzioni fattuali in sede giudiziaria- costellata dalle dichiarazioni della persona offesa, dalle deposizioni della persona offesa, nonché altri accertamenti- come semplici atteggiamenti di una coppia che era giunta al capolinea della relazione. Nello specifico dunque mancava secondo il PM una giusta prospettazione giuridica dei suddetti poiché, sebbene qui la questione non atteneva il fatto in sé accertato, la "lettura" che si dipanava con la formula assolutoria non teneva conto dell'effettiva lesività sul piano penale della condotta dell'imputato. Secondo il PM quindi la condotta dell'imputato integrava gli estremi di un reato e portava con sé una carica offensiva: non erano infatti mancate le minacce, il controllo ossessivo dei movimenti della vittima (anche con telecamere nascoste) e atti denigratori verso la stessa.  

La Corte ritiene il ricorso fondato ed annulla la sentenza partendo proprio dalle osservazioni del PM. Il "declassamento" di tali comportamenti è stato operato dal Tribunale sulla base del fatto che lo scenario di fondo era la fine di una relazione e dunque gli "stati emotivi" erano quelli fisiologici. La Corte invece sostiene, come il PM, che tale lettura risulta limitante per una corretta decisione: ad avviso della Corte il punto di partenza dell'analisi deve essere il rapporto in sé dei soggetti con particolare attenzione ai comportamenti a contenuto aggressivo e violento. Come emerge anche dalla ricostruzione del Tribunale tali atteggiamenti hanno avuto non solo una carica di offensività ma hanno anche impregnato l'intera vita familiare poiché le figlie minori della vittima hanno assistito ai medesimi. L'offensività- ricorda la Corte- non si esplica solo da un punto vi vista fisico ma anche nell'ambiente vessatorio che viene creato attorno alla vittima: su tale presupposto dunque non si può dire che comportamenti non manifestamente aggressivi non abbiano contenuto criminoso quando generano un clima denigratorio. Non è possibile dunque ritenere che la gelosia abbia una valenza giustificatoria dei comportamenti de quibus quando essi abbiano le caratteristiche sopra descritte.