Di Giulia Zani su Venerdì, 25 Ottobre 2019
Categoria: Giurisprudenza Cassazione Penale

Presunzioni tributarie e onere della prova penale

Con la sentenza n. 42567 depositata lo scorso 17 ottobre, la Corte di Cassazione indica quale valenza probatoria possono avere gli accertamenti tributari in ambito penale.

Nel caso di specie, l'imputato, fittiziamente residente all'estero, veniva ritenuto responsabile del reato di dichiarazione infedele per aver omesso di dichiarare i propri redditi professionali al fine di evadere le imposte sui redditi.

La difesa rilevava come i giudici avessero fondato la motivazione della condanna esclusivamente sulle indagini bancarie esperite dalla Guardia di Finanza, peraltro incomplete in quanto non avevano verificato l'effettiva provenienza delle somme versate sui conti correnti dall'imputato. 

Rilevava, di conseguenza, come non potesse ritenersi esauriente nel caso di specie la presunzione tributaria di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1 (che descrive i poteri degli uffici fiscali ai fini dell'accertamento dell'imposta sul valore aggiunto), essendo quest'ultima applicabile al processo penale solo a condizione che il giudice non si limiti a constatarne l'esistenza e provveda a una autonoma valutazione degli elementi evidenziati nel processo verbale di contestazione.

In particolare il n. 3 della disposizione sopra citata pone una presunzione per la quale "I dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati […] sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell'ambito dei predetti rapporti od operazioni per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili."

Così facendo il legislatore tributario ha imposto un'inversione dell'onere della prova in capo al contribuente che però, sottolinea la difesa, non può assumere valore di prova piena in ambito penale ai fini di un giudizio di colpevolezza. 

La Corte di Cassazione, dopo aver vagliato la motivazione dei giudici di secondo grado, ha rilevato come tale sentenza effettivamente non si fondasse solo sulle risultanze dell'indagine tributaria, poiché i giudici avevano posto in correlazione logica tra di loro di una serie di elementi fattuali di indubbia pregnanza dimostrativa.

Tale argomentare aveva reso la sentenza immune da vizi, poiché adottata in conformità al principio per cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumono tuttavia il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente a elementi di riscontro che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa, non potendo l'accertamento induttivo costituire, di rimando, l'unico presupposto ai fini della ritenuta sussistenza del reato contestato.

Ne consegue il rigetto del ricorso e la conferma della sentenza impugnata. 

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