Di Rosario Antonio Rizzo su Sabato, 31 Ottobre 2020
Categoria: Di Libri di altro

Pier Paolo Pasolini a quarantacinque anni dalla morte

La notte tra l'1 e il 2 novembre 1975, quarantacinque anni fa, veniva trovato il corpo senza vita, all'idroscalo di Ostia, di Pier Paolo Pasolini, uno dei massimi intellettuali del Novecento, che si è occupato di poesia, di narrativa, di cinema, di teatro, di giornalismo …!

Il primo pensiero, visto i tempi che correvano, fu l'omicidio politico, forse, ad opera dei fascisti romani, che imperversavano nelle borgate e nelle vie cittadine.

Con il passar del tempo questa convinzione prese corpo, fosse solo perché non volevamo convincerci che tutto fosse riconducibile ad un incidente di percorso a causa della sua omosessualità.

Non abbiamo mai creduto che un giovane abbia potuto fare scempio del corpo di un uomo robusto e atleticamente preparato come Pier Paolo Pasolini.

Lo stesso Pino Peluso, l'omicida reo confesso, aveva dichiarato, alcuni decenni dopo, in una trasmissione televisiva, che al momento dell'omicidio non era solo. Ma la magistratura non gli ha creduto.

Non ci meraviglieremmo più di quel tanto se dovessimo prendere atto di trovarci davanti ad uno dei tanti "casi" insoluti della storia italiana, che ha interessato tutto il Novecento. Infatti a tutt'oggi non si conoscono i mandanti di quell'omicidio e quanti furono le persone che parteciparono a quel delitto.

Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922. Il padre è ufficiale dell'esercito, mentre la madre è un'insegnante. Ed è nel periodo della Seconda guerra mondiale che la famiglia si trasferisce a Casarsa della Delizia, in Friuli, paese di origine della madre.

Questo periodo, cosiddetto "friulano" è ricco di composizioni, di diari, di appunti che Pasolini svilupperà in seguito pubblicando romanzi, saggi e raccolte di poesie.

Pubblica il suo primo libro di poesie, "Poesie a Casarsa" (1942), che Gianfranco Contini, raffinatissimo filologo, presenterà ai lettori della pagina letteraria del "Corriere del Ticino", quotidiano della Svizzera Italiana, subito dopo averlo ricevuto. 

E' un'opera importante che esce dagli schemi della letteratura dettati da Benedetto Croce, "poesia popolare e poesia d'arte". Pasolini, nella scia dei grandi letterati dell'Ottocento, vive e compone versi in dialetto come "autonoma espressione lirica". Scriverà con molto rimpianto nel 1974: "Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell'espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva".

Seguono altre raccolte di poesie. In dialetto "La meglio gioventù" (1954), mentre quelle in italiano venivano raccolte nell' "Usignolo della chiesa cattolica", 1958. Ne seguono altre: "Le ceneri di Gramsci" (1957), "La religione del mio tempo" (1961), "Poesia in forma di rosa" (1964).

Ma sul piano personale Pasolini vive avvenimenti dolorosi che lo accompagneranno per tutta la vita. Una drammaticità che segnerà tutte le sue opere future.

Nel 1947 Pasolini si scrive al Partito comunista italiano, da dove viene espulso, due anni dopo, perché viene scoperta la sua omosessualità. "Un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni", scriverà in seguito.

Anche nei suoi primi romanzi, "Ragazzi di vita" (1955) e "Una vita violenta" (1959) intreccia il dialetto romano con la lingua italiana. Un linguaggio che sarà presente anche nei numerosissimi film che comincerà a dirigere dal 1960 in poi.

"Accattone" (1961), "Mamma Roma" (1962) con una splendida Anna Magnani, "Uccellacci ed uccellini" (1966) con uno straordinario Totò.

Nel 1964 gira "Il Vangelo secondo Matteo", che Pasolini presenterà a Lugano al cinema parrocchiale Iride con il critico Pietro Bianchi del quotidiano milanese "Il Giorno". E personalmente ebbi l'occasione di assistere sia alla proiezione del film sia al dibattito che ne seguì. 

 Negli ultimi anni della sua vita fece della provocazione intelligente, mai gratuita, una particolarissima scelta di vita.

Dalle pagine del "Corriere della sera" polemizzava con tutti, denunciava le trasformazioni sociali, lo sfrenato consumismo, il degrado ambientale, l'abusivismo edilizio. Articoli apparsi nel 1975 nel libro "Scritti corsari" e nelle "Lettere luterane" pubblicate postume nel 1976.

Ed è in questi scritti che emerge la grande personalità civile "…come uomo pubblico, come coscienza civile della società contemporanea; come "corsaro", eretico, "maudit"; come uomo delle contraddizioni e dello scandalo, uomo "contro", contro tutto ciò che sentiva inautentico e dunque contro il mondo borghese, il capitalismo e il neo capitalismo, la società di massa e il consumismo …" contro tutto ciò che creava emarginazione e sfruttamento e, soprattutto, contro le contaminazione deleterie che uccidono, reprimono ogni cultura originaria.

"Ho detto, e lo ripeto, che l'acculturazione del Centro consumistico, ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale e mi riferisco dunque appunto anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani ( e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell'esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. E' qui che vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto". Questo scriveva un anno prima di essere ucciso.

E a chi metteva in dubbio le sue tesi non esitava a rispondere in maniera schietta e decisa.

E' successo con quasi tutti gli intellettuali italiani. Non ha mai lesinato risposte dure e puntuali. Memorabile quella con Italo Calvino: "Infine, caro Calvino, vorrei farti notare una cosa. Non da moralista, ma da analista. Nella tua affrettata risposta alle mie tesi sul "Messaggero" (18 giugno 1974) ti è scappata una frase doppiamente infelice. Si tratta della frase: "I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli." Ma: 1) certamente non avrai tale occasione, anche perché se nello scompartimento di un treno, nella coda a un negozio, per strada, in un salotto, tu dovessi incontrare dei giovani fascisti, non li riconosceresti; 2) augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno – quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità – ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. E' una atroce forma di disperazione e nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso". Quanta lucidità, e quanta disperazione nell'assaporare la previsione di un cambiamento globale le cui conseguenze oggi sono sotto gli occhi di tutti noi.

Al di là delle considerazioni individuali che si possono avere su Pier Paolo Pasolini, artista, letterato, poeta, regista ed uomo, ci sembra un punto fermo la necessità, in questi quarantacinque anni, della mancanza di una presenza forte e capace nel delineare i guasti della nostra società.

Messaggi correlati