Con sentenza n. 39396 del 3 settembre 2018, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che la predisposizione di un piano attestato di risanamento dei debiti non è una scriminante dell'omissione del versamento dei contributi assistenziali e previdenziali. E ciò in considerazione del fatto che detto piano è diretto a garantire i terzi che vengono in rapporto con l'imprenditore da azioni revocatorie, ma giammai autorizza a ritenere che egli non sia tenuto ad adempiere alle obbligazioni tributarie imposte per legge. Ma vediamo nel dettaglio la questione sottoposta all'esame dei Giudici di legittimità. Il ricorrente ha omesso il versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei suoi dipendenti per un importo pari ad € 145.161,00. Per tale motivo è stato condanno ai sensi:
- dell'art. 81 c.p., comma 2 (secondo cui è punito con la pena che dovrebbe dovrebbe infliggersi per la violazione più graveaumentata sino al triplo […] chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge)
- e dell'art. 2, D.L. 12 settembre 1983, n. 463, convertito dalla L. 11 novembre 1983, n. 638 (secondo cui l'omesso versamento delle ritenute suddette, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l'importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione).
A parere del ricorrente, tale condanna è ingiusta perché i Giudici non hanno tenuto conto del fatto che egli, a seguito di una crisi finanziaria che ha colpito la sua società nel 2008, ha avviato una procedura di ristrutturazione del debito. Tale procedura gli ha consentito di dilazionare il debito anche nei confronti dell'INPS. Inoltre, secondo il ricorrente stesso, egli non avrebbe potuto liquidare i creditori al di fuori del suddetto piano, con l'ovvia conseguenza che l'omissione in questione, a suo dire, risulta giustificata da una condotta posta in essere dallo stesso per ottemperare, ex art. 51 c.p., a un dovere imposto da una norma di legge o da un ordine legittimo della pubblica autorità (accordo di ristrutturazione del debito). La questione è giunta all'attenzione della Corte di Cassazione. I Giudici di legittimità, innanzitutto, partono dall'esame delle finalità del piano attestato di risanamento, di cui all'art. 67, comma 3 lett. d) della L. Fall., introdotto dal D.L. n. 35 del 14 marzo 2005, conv. dalla L. n. 80 del 2005(e successivamente modificato dal D.L. n. 83 del 2012). Detto piano, quando un imprenditore è colpito da crisi economica, consente a quest'ultimo di riportare la sua impresa ad una certa stabilità finanziaria, attuando una serie di strategie e garantendo la continuità aziendale, senza che vi sia alcun controllo da parte del tribunale, come invece avviene nelle procedure concorsuali di cui all'art. 182 bis e 161 L. Fall. In buona sostanza, si tratta di un atto unilaterale dell'imprenditore che non richiede necessariamente l'accordo con i creditori.Sebbene si tratti di un atto unilaterale, per cui non vige obbligatoriamente un regime pubblicistico, gli atti e i pagamenti posti in essere in esecuzione di tale piano sono sottratti dall'eventuale e successiva azione di revocatoria fallimentare. Tale sottrazione è possibile a condizione che:
- il piano appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria;
- un professionista indipendente designato dal debitore, iscritto nel registro dei revisori legali, attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano.
Orbene, a parere della Suprema Corte, proprio la natura e le finalità suesposte del piano in questione, rende tale istituto una sorta di strumento diretto a salvaguardare tutti quegli atti compiuti in esecuzione del piano di risanamento aziendale e tutti i terzi, che hanno fatto affidamento su detto piano, dal pregiudizio che potrebbe derivare loro in caso il programma non abbia esito positivo e l'imprenditore venga dichiarato fallito. Detto questo, tornando al caso in esame, secondo i Giudici di legittimità, stante proprio alla ratio di tale istituto, se il ricorrente avesse pagato i contributi a cui per legge era obbligato, in esecuzione del piano di risanamento, non avrebbe violato alcun ordine pubblico. Infatti, i debiti derivanti dalle omissioni contributive non dovevano, come erroneamente ritenuto dal ricorrente, essere congelati o dilatati rispetto alla scadenza ad opera dalla predisposizione del piano attestato ex art. 67 succitato.Infatti, affermare che l'omissione contributiva alla scadenza sia stata giustificata dall'adempimento del piano (adempimento di un dovere ex art. 51 c.p.) non è corretto dal punto di vista strettamente giuridico i) sia perché tale piano, come su accennato, è finalizzato a risolvere la crisi di impresa garantendo dall'esenzione della revocatoria gli atti compiuti in esecuzione del piano stesso, ii) e sia perché con il piano di risanamento non siamo difronte ad una procedura concorsuale diretta a garantire il soddisfacimento dei creditori secondo un ordine temporale con gli effetti protettivi tipici del concordato preventivo. Con l'ovvia conseguenza che anche in presenza di un piano attestato di risanamento, il debito tributario deve essere pagato e, nel caso di specie, avrebbe dovuto essere pagato alla scadenza.Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, pertanto, la Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, confermando la condanna del ricorrente.