Di Paola Moscuzza su Sabato, 22 Luglio 2017
Categoria: Giurisprudenza Cassazione Penale

Marito condannato per aver cacciato di casa, licenziato e minacciato la moglie

 

I fatti così come raccontati dalla moglie, malgrado la rabbia e il rancore nutrito verso il marito, non tolgono attendibilità alla donna.
 
Con sentenza n 35923/17, depositata il 20 luglio, la VI sezione Penale della Corte di Cassazione si è pronunciata in favore di una donna il cui marito si sottraeva agli obblighi di assistenza familiare, la obbligava ad abbandonare la casa, le sottraeva il bancomat, la licenziava (essendo sua dipendente),e dulcis in fundo, la minacciava di morte, sia con fucile che con gesti inequivocabili, e così macchiandosi dei reati di cui agli artt. 570 comma 1° e 2°, e 612 comma 2° del Codice Penale.
 
Giungeva in Cassazione l´imputato, forte dei motivi di ricorso che di seguito si espongono.
La Corte d´Appello, come eccepito dall´ imputato, non aveva valutato correttamente l´esito delle testimonianze (effettuate dal giudice di primo grado) rese dalla persona offesa, da cui emergevano palesi delle contraddizioni.
Similmente non erano stati tenuti nella giusta considerazione l´incoerenza che emergeva dai racconti della donna, così come appurato in sede di consulenza tecnica psicologica, né lo spirito vendicativo che animando la donna contro il marito, sarebbe potuta essere la causa della denuncia per minaccia al fine di privare il marito del fucile con cui coltivava la sua passione per la caccia.
 
Col secondo motivo di ricorso si eccepiva la violazione del ne bis in idem, vale a dire quel principio secondo cui una persona non può essere giudicata due volte per lo stesso reato. Di fatti l´imputato rilevava che rispetto al reato di cui all´art 570 cod.pen., era già stato precedentemente assolto perché il fatto non costituiva reato.
L´essere andata via di casa, era per finire, frutto di una spontanea decisione della donna, e non certo delle sue pressioni.
 
La sentenza d´appello, di condanna a tre mesi e dieci giorni di reclusione, veniva confermata presso la Suprema Corte, la quale, analizzate le parole e lo stato d´animo della donna durante l´esposizione dei fatti, asseriva che la stessa, malgrado la rabbia espressa ricordando i meschini gesti del marito, risultava senz´altro attendibile.La precaria situazione in cui versava, rimasta senza casa, lavoro e con un figlio da mantenere, giustificavano la sua collera che, tuttavia, non ha mai sconfinato nell´ ambito della calunnia.
La condotta vessatoria posta in essere a suo danno dal marito, trovava invece conferma nei racconti del figlio che, con dolore, confermava il disinteresse, sia affettivo che economico, del padre verso moglie e figlio.
 
La valutazione così come effettuata in sede di merito, risultava corretta e conforme all´orientamento della Cassazione che rigettava il ricorso e condannava il ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio.
 
 
Paola Moscuzza, autrice di questo articolo, si è laureata in Giurisprudenza presso l´Università degli Studi di Messina nell´anno 2015.