Di Paola Mastrantonio su Mercoledì, 14 Dicembre 2022
Categoria: Giurisprudenza Cassazione Lavoro

Malattia professionale: liquidazione del danno da esposizione all’amianto.

"In tema di neoplasie polmonari causate da inalazione di amianto e, in generale, di malattie ingravescenti con evoluzione, con alta probabilità o con certezza, sfavorevole, l'incapacità biologica temporanea perdura in relazione alla durata della malattia e viene a cessare o con la guarigione (con pieno recupero delle capacità anatomo-funzionali dell'organismo) o con l'adattamento dell'organismo alle mutate e degradate condizioni di salute o, ancora, con la morte. Inoltre, una volta avvenuto l'adattamento dell'organismo alle mutate e degradate condizioni di salute (c.d. stabilizzazione), spetta il risarcimento del danno non patrimoniale, sub specie di danno biologico, il quale va liquidato come invalidità permanente, utilizzando o il criterio equitativo puro o le apposite tabelle".

"Ove debba essere liquidato il danno biologico derivato da una malattia c.d. ingravescente, la sopravvenuta morte del soggetto in conseguenza della evoluzione o della ripresa della patologia epatica non determina un nuovo danno alla salute autonomo e diverso che si aggiunge al danno biologico da invalidità temporanea e permanente, in precedenza già accertato e liquidato, atteso che l'exitus deve essere considerato come prevedibile estremo rischio di aggravamento della possibile evoluzione della patologia contratta".

Cassazione, sez. lav., ord. 1 dicembre 2022, n. 35416.

Il fatto.

L'autorità di sistema portuale di Venezia, condannata in primo ed in secondo grado a risarcire un lavoratore portuale per un adenocarcinoma causato dall'inalazione delle fibre d'amianto durante lo svolgimento delle proprie mansioni, ricorreva in cassazione lamentando l'errata liquidazione del danno da invalidità permanente.

Secondo la prospettazione del ricorrente, la corte territoriale non avrebbe potuto liquidare il danno da invalidità permanente, perché la malattia del lavoratore (la neoplasia polmonare) era ancora in atto al momento del giudizio e, dunque, non essendo il soggetto ancora guarito, l'unica forma di lesione in concreto configurabile era quella temporanea. 

La decisione della Cassazione.

La Cassazione ha preso atto dell'esattezza del ragionamento posto alla base del ricorso introduttivo, fondato sulla tradizionale "scomposizione" del danno biologico (ossia dell'integrità psicofisica) in "lesione temporanea" - coincidente con il periodo di tempo occorrente per la somministrazione delle cure necessarie a ristabilire il paziente e per il suo completo recupero psicofisico ed al quale consegue il ripristino della condizione di salute antecedente il sinistro - ed in "lesione permanente" consistente in quei postumi invalidanti che si qualificano come inemendabili e che si collocano cronologicamente in un tempo successivo rispetto ad un pregresso diverso stato patologico. E', infatti su tale presupposto, ha proseguito la Corte, che poggia l'assunto secondo cui in presenza di un danno biologico l'invalidità permanente è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi.

Pur condividendo la tesi da cui è partito il ricorrente, la Cassazione ha però ritenuto non corretta la conseguenza che questi ne ha fatto discendere, ossia l'impossibilità di riconoscere il danno da lesione permanente della salute in presenza di una malattia (neoplasia polmonare) che non era venuta meno, ma che si trovava in una fase di remissione clinica che corrispondeva ad una stabilizzazione temporanea.

Per risolvere la questione, la Suprema Corte è partita dalla nozione di malattia.

Tale condizione, chiariscono gli ermellini, coincide con la lesione inferta alla integrità personale che determina un'alterazione in peius delle pregresse condizioni psicofisiche del soggetto (che copre tutto il periodo dell'inabilità temporanea).

Tale nuovo stato è destinato a cessare, all'esito del periodo di convalescenza, secondo tre distinte modalità: o con la guarigione (ossia con il ripristino delle condizioni di salute anteriori o comunque senza reliquati invalidanti), o, ancora, con la stabilizzazione del nuovo status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute (invalidità permanente), o, infine, con la perdita totale di capacità biologica del soggetto conseguente al decesso.

Chiarito il concetto di malattia, la Cassazione ha ridimensionato la portata dell'affermazione (citata dal ricorrente) secondo cui è possibile individuare un danno biologico permanente esclusivamente dopo il decorso e la cessazione della malattia, chiarendo che tale affermazione deve essere intesa nel senso che, ad assumere rilievo, è "la stabilizzazione del nuovo status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute" dopo il periodo di tempo occorrente per la somministrazione delle cure necessarie a ristabilire il paziente e per il suo completo recupero psicofisico. 

Gli ermellini hanno dunque chiarito che esistono alcune patologie, sorte in seguito ad un illecito extracontrattuale, che, dopo un primo evento lesivo, determinano ulteriori conseguenze pregiudizievoli, le quali, però, costituiscono un mero sviluppo ed un aggravamento del danno già insorto e non la manifestazione di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella manifestatasi con l'esaurimento dell'azione del responsabile. In simili situazioni, dopo la somministrazione delle cure necessarie a ristabilire il paziente, si è avuta "la stabilizzazione del nuovo status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute", ma è incontestabile che il danno biologico permanente rimanga tale, ancorché gli effetti dell'illecito ben possono accentuarsi, nonostante, tecnicamente parlando, la fase della "malattia", nei termini sopra esposti, sia stata superata. Siffatte patologie comportano per il paziente, in futuro, un maggiore rischio di peggioramento del suo stato di salute, rispetto a quelle patologie che, invece, determinano menomazioni stabilizzate. In tali patologie, dette ingravescenti, in cui non può escludersi anche un possibile futuro esito letale, non viene in questione un danno terminale o, comunque, un danno biologico da inabilità temporanea, ma un danno biologico da invalidità permanente, atteso che i barèmes considerano nella scala dei gradi di invalidità il maggiore rischio, cui è esposto il paziente, di subire anche a distanza di tempo – una ripresa e sviluppo del fattore patogeno, che potrebbe condurre al decesso, ovvero di incorrere in ulteriori complicanze incidenti peggiorativamente sullo stato di salute, eziologicamente riconducibili all'originaria patologia.

Ne deriva, ha concluso sul punto la Cassazione, che, ove debba essere liquidato il danno biologico derivato da una malattia c.d. ingravescente, la sopravvenuta morte del soggetto in conseguenza della evoluzione o della ripresa della patologia non determina un nuovo danno alla salute autonomo e diverso che si aggiunge al danno biologico da invalidità temporanea e permanente, in precedenza già accertato e liquidato, atteso che l'exitus deve essere considerato come prevedibile estremo rischio di aggravamento della possibile evoluzione della patologia contratta. 

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