Di Paola Mastrantonio su Martedì, 31 Gennaio 2023
Categoria: Giurisprudenza Cassazione Lavoro

Licenzi il dipendente dopo averlo fatto pedinare? E’ discriminatorio.

 Quando la risoluzione del contratto di lavoro è fondata su condizioni particolari o personali del lavoratore, si parla di licenziamento discriminatorio.

Tale figura è stata introdotta per la prima volta nel nostro ordinamento dall'art. 4 della Legge 604 del 1966, ma ha trovato la sua esplicita definizione soltanto nell'art. 3 della Legge n. 108 del 1990, laddove si specifica che "è discriminatorio il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa , dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali, indipendentemente dalla motivazione adottata o irrogato al lavoratore a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero in ragione della sua partecipazione ad uno sciopero o diretto a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basato sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali".

Altre ipotesi di licenziamento discriminatorio sono implicitamente ricavabili da una serie di disposizioni normative, come l'art. 43 del D.Lgs. n. 286 del 1998, che definisce discriminatorio qualsiasi licenziamento che produca l'effetto di discriminare anche indirettamente i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza, qualora questi ultimi non costituiscano requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa.

Anche gli artt. 2 e 3 del D.Lgs. 215 del 2003, contribuiscono a delineare la fattispecie in commento, precisando che, qualsiasi licenziamento determinato dalla razza o origine etnica o apparentemente neutro ma in grado di mettere le persone in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, deve ritenersi discriminatorio.

Infine, gli artt. 25 e 26 del D.Lgs. n. 198 del 2006, definiscono il licenziamento discriminatorio come quello che produce uneffetto pregiudizievole, discriminando i lavoratori in ragione del loro sesso, o del loro stato di gravidanza, o di maternità o paternità anche adottive o della titolarità o esercizio dei diritti conseguenti a tali stati, o dell'esercizio di un'azione volta ad ottenere il rispetto di tale principio di parità di trattamento, o dovuto al rifiuto o alla sottoposizione a molestie o molestie sessuali, nonché tutti quei licenziamenti apparentemente neutri, ma in grado di mettere i lavoratori portatori di un fattore di cui sopra in una situazione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori non portatori di tali fattori, salvo che, anche in questo caso, si tratti di requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa.

Nell'ordinanza n. 2606 del 27 gennaio scorso, la Cassazione ha esaminato il caso particolare di un lavoratore che aveva dimostrato che la sua condizione di sindacalista aveva indotto la società datrice ad effettuare indagini investigative sul proprio conto, subendo un trattamento deteriore rispetto ai suoi colleghi che, invece, non erano stati sottoposti allo stesso tipo di controllo.

Il fatto

Un informatore scientifico delegato RSUe responsabile della sicurezza, inviava alla società datrice un messaggio con il quale collegava il suicidio di un suo collega allo stress lavorativo.

Dopo breve tempo, la società inviava al dipendente una nota contenente la contestazione di una serie di illeciti disciplinari consistenti in incongruenze ed anomalie nell'orario di lavoro e nei rimborsi spese.

Detti illeciti erano emersi all'esito di accertamenti investigativi disposti dall'azienda a seguito di "segnalazioni anonime" .

Il tribunale, pronunciandosi sul ricorso proposto dal lavoratore, dichiarava la nullità del licenziamento, ritenendolo discriminatorio, ordinando altresì la reintegra dello stesso nel posto di lavoro.

Contro tale pronuncia proponeva reclamo la società, ma la Corte d'Appello confermava la sentenza di primo grado.

La decisione della Cassazione.

Anzitutto, rileva la corte, il lavoratore aveva dedotto, sin dal primo grado di giudizio, un collegamento tra l'atto di recesso datoriale e la sua attività sindacale, così prospettando, da subito, una fattispecie perfettamente sussumibile in una delle ipotesi di licenziamento discriminatorio tipizzate dal legislatore, circostanza, questa, che lascia un limitato margine di valutazione al giudice di merito.

A tal proposito la Cassazione ha ricordato il proprio orientamento in base al quale "laddove vengano in considerazione profili discriminatori o ritorsivi nel comportamento datoriale, il giudice, alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata e non in contrasto con la normativa comunitaria, deve tenerne conto, sia in base all'art. 3 Cost., sia (appunto) in considerazione della specifica tipizzazione come discriminatorie (in modo diretto o indiretto) di specifiche condotte lesive dei diritti fondamentali".

Quanto alla sussistenza di un trattamento deteriore, dal lavoratore ravvisato nell'espletamento di pedinamenti ed attività investigative di vario genere svolte solo nei suoi confronti e non anche verso gli altri dipendenti nelle sue stesse condizioni, gli Ermellini hanno ricordato che, per effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE ; n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, vige un particolare regime probatorio in tema di licenziamento discriminatorio, regime in forza del quale incombe sul lavoratore il solo onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio ed il trattamento che assume meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi

 elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso.

Nel caso di specie, ha osservato la corte, a fronte dell'allegazione, da parte del ricorrente, di un fattore di rischio (la carica di rappresentante sindacale) e della prova dell'esistenza di un trattamento deteriore (anche se solo) prospettato in relazione con tale fattore di rischio (il pedinamento a seguito di una inverosimile segnalazione anonima), la società datrice avrebbe dovuto fornire la prova dell'esistenza di fatti di segno contrario, prova che, hanno concluso sul punto gli Ermellini, non può essere ritenuta raggiunta mediante la dimostrazione dell'esistenza di ragioni di natura economica a fondamento del licenziamento. 

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